Racconti

LA BORRACCIA

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 18/12/1971)

La Bocchetta delle Forbici segna il confine  fra due mondi. Da una parte i pascoli dell’alpe Musella, con i larici nani cresciuti a stento, contorti dal vento, solitari come eremiti. Vagano sull’erba gialliccia, facile preda delle capre, con le loro scarse fronde che toccano il suolo. Si sono spinti oltre il confine del bosco e pagano con una vita grama il loro ardimento. Ero passato accanto all’ultimo larice, un arbusto più che una pianta, un centinaio di metri o forse più sotto il passo, poi era rimasta solo l’erba sempre più rada, gialla e secca anche in quei giorni di primavera, punteggiata da minuscoli fiori di un rosso intenso

Le pietraie dei canaloni delle cime Musella si allargavano e scendevano giù per il pendio, l’erba saliva tra sasso e sasso in un disperato tentativo di vita.

Al passo anche l’erba finiva in un mare di pietre e di colpo si apriva alla vita un nuovo mondo: la conca del Bernina coi ghiacciai dello Scerscen Superiore e Inferiore sovrastati dal Pizzo Bernina, dal Roseg, dallo Zupò, dal Glushiant e da tutte le altre cime. Si era ancora in primavera e oltre il passo tutta la zona era coperta di neve. Le cime, con le loro pareti verticali, sembravano austeri commensali attorno ad un’enorme tovaglia bianca.

Fu in quel momento che ebbi paura e mi immaginai come un minuscolo insetto che striscia sulla tavola fra le pieghe di una candida tovaglia mentre i grandi commensali attorno guardano minacciosi. Basta un dito per schiacciarmi. Lontano, sulla sinistra, accigliato e semicoperto da nuvoloni il Disgrazia, con quel suo nome poco promettente, attirava il mio sguardo preoccupato. Il cielo era sereno ma alcuni banchi di nebbia, lacerati dal vento, indicavano all’occhio esperto che il tempo sarebbe cambiato. La capanna Marinelli era però ad un’ora di strada, forse meno, e sulla neve era ben visibile la pista che i compagni avevano lasciato nella mattinata al loro passaggio. Il freddo era intenso, il silenzio profondo. Troppo. Tolsi i guanti dallo zaino e pensai con stizza di non aver portato neppure un goccio di cognac per riscaldarmi.

– Sono proprio un  fifone – disse fra me – conosco  bene la strada, non vi sono difficoltà, eppure ho quasi paura. Certo, se fossi salito in mattinata coi compagni… ma! Il lavoro è lavoro.

Guardai le ore, non erano ancora le quattro del pomeriggio, il sole era ancora alto nel cielo ma affrettai il passo. Un turbinio di luce  che  feriva gli occhi si rifletteva da quel mondo cristallino e falsava ogni distanza. Le cime erano lì, vicinissime e avrei voluto con un salto salire sulla prima, volare da una all’altra, guardare giù l’ombra delle valli e il lento ansimare della terra. Nello stesso tempo un senso di gioiosa umiltà mi avvolgeva e mi dava coscienza di me stesso..

L’estate era in ritardo, i ghiacciai dormivano sotto il manto uniforme e non mostravano ancora le loro spaccature azzurre. Seguivo la pista meccanicamente, pensando. Forse no. In montagna si può pensare a tutto e a nulla. Ed è la stessa cosa perché la mente si libera  da ogni schema, da ogni convenzione, da ogni vincolo. L’orizzonte si apre, si allarga a dismisura e il cuore trasale in una vaga percezione dell’Immenso. La distesa di neve può sembrare un deserto o il mondo intero. Non ha importanza.

Quando si schiaccia un ragno, questi, nelle convulsioni dell’agonia, raccoglie le lunghe zampe intorno al corpo in un groviglio senza vita. Passando in quel punto, in estate, l’elicottero precipitato fra i sassi mi ha sempre dato l’impressione di un ragno schiacciato. Ora no, lo vedevo affiorare a stento dalla neve. Sporgeva un tubo d’alluminio. Null’altro. La neve aveva coperto il groviglio di lamiere, il motore e la lapide che era stata posta in memoria di quel montanaro che la montagna non aveva mai piegato. Si era arresa docile alla sua piccozza ma si era sentita offesa dallo sbatacchiare di ali di questa libellula d’alluminio che turbava il silenzio e la purezza delle vette. La montagna si era vendicata ma non era giusto per quel montanaro morire così, proprio sulla sua montagna, tradito dal progresso non dalla natura. Forse il suo spirito vaga ancora invitto sui ghiacciai.

Guardai verso il rifugio, da lì avrei dovuto vederlo ed invece vidi il nevischio’ portato dal vento spazzare il pendio, venirmi incontro. Fu un attimo. Un turbinio di neve e di nebbia mi avvolse, mi accecò, il vento ululava come un milione di lupi inferociti. Sibili acuti colpivano il viso come staffilate. Calai il cappuccio fin sugli occhi, chiusi la giacca a vento e imprecai contro la tormenta. Tornare indietro non era possibile, dovevo proseguire, mezz’ora di strada, solo mezz’ora, fin che c’era la pista. Ma non si può camminare nella tormenta, il vento mi fece cadere. Col viso affondato nella neve stavo quasi meglio. Mi sentii soffocare, mi rialzai e nuove frustate mi percossero le guancia. In pochi minuti la pista scomparve.

Cammino senza orientamento, devo chiudere gli occhi per ripararli. Del resto non serve a nulla guardare, non vedo neppure i miei piedi che sento affondare sempre più. Dalle gole e dai passi sembrano giungere tutte le urla di questo mondo, tutti i gemiti, tutte le imprecazioni. Le montagne ghignano lugubri al di là della nebbia. Sento il ghiaccio raccogliersi sul viso, il freddo e la disperazione penetrare lentamente nel corpo. Cammino senza sapere dove, senza sapere perché, senza sapere quanto, due minuti o due ore? Che senso ha il tempo all’inferno? La neve fino alle ginocchia mi impedisce di avanzare, cado, mi rialzo, guadagno un’altro metro di terreno, urlo. No, no ho urlato, il vento ha ricacciato in gola il mio grido e mi ha percosso sui denti. Poi mi sento più calmo, anzi rido, rido, rido. Un corpo si muove goffamente nella tormenta. Vedo la macchina sportiva che ho appena comperato, ora vado a prendere la mia ragazza, no, ho sonno, voglio dormire, voglio dormire… e lei cosa vuole? Ah, vuole pagare il suo debito? Non mi interessa, ora ho sonno. Un volto, due, tre, tutti i volti noti e sconosciuti, tutti i ricordi relegati negli abissi della memoria escono a frotte, danzano impazziti col nevischio e scompaiono. Non ha importanza. Ecco precipito verso il mio letto, mi sento cadere giù, giù, sempre più giù.

Sentii una fitta al viso e mi accorsi di rotolare nella neve. Mi trovai disteso, semi sommerso e la luce mi ferì gli occhi. Mi passai una mano sul viso e sentii i pezzi di ghiaccio penetrare come lame nella carne e in bocca l’amaro sapore del sangue. La nebbia diradata e luminosa era immobile attorno a me. La tormenta era finita. Vicini vidi il tubo d’alluminio dell’elicottero. La stanchezza mi penetrò fino all’ultima cellula. E’ finita voglio dormire.

Un uomo, un montanaro, comparve nella nebbia, trasparente come un fantasma, aveva in mano il mio zaino e una borraccia, me li porse. Bevvi, bevvi avidamente col capo reclinato all’indietro, sentii un fuoco corrermi dentro, il sangue tornare a pulsare nel collo. Quando staccai la borraccia dalla bocca l’uomo era scomparso, ma non ci pensai, come un automa raccolsi lo zaino, vi ficcai dentro la borraccia e ripresi a camminare. La nebbia si sciolse, le cime riapparvero, ritrovai l’orientamento, sentii di nuovo il freddo e il silenzio. Affondavo nella neve fino alle ginocchia due passi tre passi per avanzare di mezzo metro. Oltre il passo Sella vidi l’ultimo chiarore del tramonto. Nel cielo brillarono le prime stelle. Di nuovo ebbi paura. Le pareti a picco del Bernina e dello Scerscen si fecero nere come il cielo, ma senza stelle: il freddo aumenta mi aiuto con le mani che non sento più come fossero di legno. Il rifugio e lì, dietro quel dosso, ci sono,  ancora uno sforzo, mi ritorna il sonno, no, no cammino, devo camminare, schifosa montagna non mi avrai. Ma è inutile so che non arriverò mai. Il silenzio penetra nella mia mente. Il vuoto. Ecco la sagoma enorme del rifugio, non serve, io mi fermo qui.

Ora gli amici mi tolgono i guanti e gli scarponi, qualcuno mi porge da bere ed allora rivedo la tormenta, il rottame dell’elicottero, un uomo e una borraccia. Mi metto a cercare nello zaino per terra e frugo fra gli oggetti cercando una borraccia che non c’è, che non può esserci. Allora piego il capo fra le ginocchia e piango.

Renato Soltoggio

UN FATTO IMPORTANTE

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 12/05/1973)

Il prete sembra  camminare senza fretta ma il passo sotto la tonaca bianca deve essere lungo perché il chierichetto, di tanto in tanto, compie un paio di saltelli per mantenersi a fianco.
Ben distanziato, come se non avesse nulla a che vedere col prete, il cavallo, senza fiocchi e bardature, ma con l’aria solenne di sempre, traina carro cocchiere e cassa da morto. Dietro il carro il “Garibaldino”, così lo chiamano in paese, butta avanti le sue enormi scarpe aperte sulla punta. Il suo passo è largo, quasi a tenere meglio in equilibrio le spalle che oscillano con ritmo cadenzato. Sembra non reggere l’andatura, ma tiene perfettamente il passo col cavallo. Ogni tanto si gira brontolando verso la “Mata Luzia” che, nonostante il suo ansimare e arrancare agitato, perde terreno.
C’erano tre barboni nel paese. Toni è morto. Questo è il suo funerale.
All’incrocio con la strada statale, un vigile fa passare velocemente una balilla prima che il corteo, se così si può chiamare perché, oltre ai due descritti, non vi è nessuno dietro il carro funebre. Vicino al Caffè alcuni giovani, con la schiena appoggiata al muro e le gambe accavallate, ridono rumorosamente. Due distinti signori che attraversano la piazza in senso opposto, si incontrano, si salutano con un cenno e proseguono senza togliersi il cappello. Non hanno visto.
Luigino ha approfittato della mia disattenzione per spostare la sua biglia.
– Non è vero.
– La biglia era qui.
– Bugiardo.
Ci rotoliamo per terra pestandoci di santa ragione. Una vecchia signora, con un vestito nero fino ai piedi, ci grida: – Svergognati! picchiarvi mentre passa un funerale – e tira diritto. E’ tanto brutta, rugosa, magra, avvolta nel suo vestito nero, che sembra un pipistrello nel patagio, perciò non l’ascolto e continuo a far valere le mie ragioni.
Toni è morto. Ciò significa semplicemente che non lo vedrò più grattarsi vigorosamente i fianchi con le sue grandi mani o strofinarsi, appena sopra le caviglie, alternativamente coi tacchi delle scarpe polverose. Toni stava seduto per delle ore sugli scalini del monumento della piazza dove giochiamo alle biglie. Per lo più dormiva, ma quando si alzava e camminava per la strada parlava sempre ad alta voce, annuiva, e rispondeva a se stesso cambiando tono. Noi gli giravamo attorno beffeggiandolo e fingendo di fuggire quando lui fingeva di lanciarci dei sassi.
Era diventato amico di un cane randagio, un bastardo dal pelo arruffato, col quale divideva cibo e pulci. Lo chiamava Davide. – Bravo Davide, tu sei una persona intelligente, parli poco e ascolti, mangia è pane buono, piano brutto egoista, e a me non ne lasci?- Noi ridevamo e allora il vecchio si arrabbiava. – Sciò, sciò, raus – e incominciava a gridare in una lingua sconosciuta che ci faceva paura. Persino Davide si allontanava ma poi tornava a strusciarsi sulle gambe del suo padrone.
Toni non dava fastidio a nessuno, girava per il paese senza chiedere l’elemosina, dormiva dentro il primo portone che trovava o sulla legna nelle corti dei contadini. Credo mangiasse solo pane, ne aveva sempre un pezzo nelle tasche del suo sbrindellato pastrano militare, assieme ad un turacciolo, una stringa di cuoio e qualche altro oggetto che custodiva gelosamente. Erano tutte le sue proprietà. Aveva l’aria dell’uomo soddisfatto, godeva di quei beni che gli altri si sono dimenticati di avere: la libertà, l’aria, il sole e il mondo.  Non aveva nulla di superfluo  che gli facesse desiderare altro cose superflue. Se gli fosse stato chiesto cosa gli mancava, invano si sarebbe scervellato a pensare. Non avendo nulla possedeva tutto.
Non dava fastidio a nessuno, eppure le guardie lo hanno preso come si prende un ladro e lo hanno portato all’ospizio.
Dieci giorni dopo è morto.

Non c’è gente al suo funerale, però fa la stessa strada del funerale del Commendatore. Gran bel funerale quello del Commendatore! Lo hanno detto tutti. Io mi sono annoiato. Cosa c’entra il Commendatore? E’ morto anche lui la settimana scorsa. Non l’avevo mai visto ma la mamma mi ha detto che “è il commendatore”, mi ha messo i vestiti della festa, quelli coi calzoni lunghi e mi ha raccomandato di non  sporcarmi. Ancora, prima di uscire da casa, con un po’ di saliva mi ha sistemato i capelli sulla fronte. Fuori dalla chiesa ho visto partire tutto il corteo. C’erano due vigili coi guanti bianchi, aprivano il funerale i bambini dell’orfanotrofio, ben incolonnati,  i maschietti vestiti di azzurro e le bambine di rosa, poi c’erano tante corone che credo abbiano distrutto tutti i giardini del paese per farle, poi i preti con turiboli, incensi, aspersori e tutte le altre diavolerie. Due cavalli bardati fino ai piedi e con un enorme pennacchio nero sulla testa sembravano una coppia di carabinieri in alta uniforme. Dietro al carro lucido come uno specchio, disordinatamente mescolati fra loro, venivano uomini e donne che piangevano come noi bambini quando vogliamo qualcosa e singhiozziamo forte. Erano tutti vestiti di nero. Come i becchini. Seguivano le bandiere, la banda e una fila di soldati che però del soldato avevano solo il cappello. Poi venivano tutte le donne che pregavano in latino e facevano la cantilena come in chiesa. Per ultimi gli uomini. Io era contento perché ero fra gli uomini assieme al babbo e a mio fratello. Mi sentivo importante. E’ il posto che ti fa sentire importante, non mi sarebbe piaciuto stare con la mamma fra le donne. Gli uomini sono più importanti delle donne perché in chiesa stanno in piedi fuori dai banchi e non si inginocchiano all’Elevazione; il maestro è più importante dello scolaro perché sta dietro la cattedra; un uomo con la macchina è più importante di quello senza; un Vescovo senza vestiti rossi sarebbe un prete qualunque e un Commendatore senza soldi non avrebbe tanta gente al suo funerale.
Però non è giusto, perché tutti gli uomini parlavano fra loro, sottovoce ma parlavano, io volevo litigare con mio fratello ma mio padre mi ha fatto tacere. Così mi sono annoiato!

Il maestro dice che questo tema non ha senso e che ho fatto una gran confusione. Certo, sarà vero, però c’è qualcosa che non ho ben capito, che non so dire, c’è qualcosa di importante in Davide, il cane di Toni, nel suo funerale, nel suo turacciolo e nella sua stringa di cuoio. Qualcosa che certo manca nel funerale del Commendatore.
Ci penserò da grande.

Renato Soltoggio

GIUSEPPE DETTO PINO

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 18/07/1970)

La linea d’ombra, che prima saliva lentamente sul fianco della montagna, ha fatto, rapidissima, l’ultimo balzo conquistando anche la vetta. Ora, solo una nuvola altissima gioca con l’ultimo raggio di sole. Tre case, una attaccata all’altra, quasi a sostenersi contro il trascorrere dei giorni che le insidia, se ne stanno abbarbicate da sempre  sulla prima pendice del monte. In basso due linee, il fiume costretto fra due montagne e nello stesso tempo arbitro e confine fra le stesse, aggira con calma i conoidi delle valli laterali, si allarga negli spiazzi e si insinua nelle gole, l’altra, la strada maestra, corre inspiegabilmente diritta e tutta uguale col suo grigio asfalto, quasi come una sfida alla natura. Grandi come grossi topi di campagna le macchine, viste dall’alto, strisciano lisce e diritte come tirate da un filo invisibile. Al loro apparire si sente un leggero fruscio che aumenta velocemente, per affievolirsi, dopo il passaggio, in un lamento che muore nel silenzio. Ed allora un grillo tenta in un prato un flebile accordo. Ma non c’è posto per lui, è stato solo un attimo, un inspiegabile attimo senza traffico.

Un uomo è apparso uscendo da un pesante portone di legno, sopra di lui, incisa nell’architrave di pietra è ancora bel leggibile una data: 1608. Il suo portamento è eretto, i suoi occhi fieri e sicuri ma il volto segnato più dalla fatica che dagli anni fa dubitare che le sue spalle non siano un poco ricurve. Giuseppe, o meglio Pino, come è sempre stato chiamato, fermo con le gambe leggermente divaricate si guarda attorno con aria grave e ponderata, come se le montagne attorno fossero un po’ cosa sua e controllasse che tutto è in ordine. Ha in mano un giornale. Finalmente si muove e si siede sulla panca di pietra a lato del portone di casa. Toglie la pipa dal taschino del giubbotto, la borsa di pelle da un’altra tasca, riempie la pipa schiacciando per bene il tabacco e se la mette in bocca ma non l’accende. Compie ogni movimento con calma, come un rito. E’ stato tutto il giorno nella vigna, dietro la casa, ora ha appena finito di cenare. E’ bello cenare presto in estate, quando è ancora chiaro, si risparmia anche corrente elettrica. Ora si gode la sera, quando sarà scuro andrà a letto. Prende il quotidiano che aveva appoggiato sulla panca per preparare la pipa. Lo ha comperato al mattino ma deve ancora leggerlo. Prima però guarda il cielo, verso il fondo della valle, scruta le nuvole, sta in ascolto, sembra che annusi l’aria. -Domani piove – dice convinto e guarda il giornale. Legge e di tanto in tanto scuote la testa, proprio non riesce a capire, crisi di governo, pericolo di svalutazione, blocco degli scrutini, manifestazioni di piazza, sciopero al Genio Civile, occupazione alla Fiat. – Sarà così – dice – io sono un po’ fuori dal mondo. L’aria si fa più fresca, la sera avanza velocemente. Da un’occhiata ai titoli della cronaca nera, quella non gli interessa e passa oltre.

Una macchina, di colore rosso, sale velocissima lungo la strada non asfaltata, si ferma davanti al gruppetto di case. Un giovane con una camicia attillata, a fiori, di colori sgargianti si sporge dal finestrino. – Per favore, la “Baita” dove si balla… – Sempre avanti, un chilometro circa, non potete sbagliare – risponde Pino.
– Grazie
– Buon divertimento –
La macchina riparte e scompare dietro la curva lasciando nell’aria una nuvola di polvere. Pino si alza per rientrare in casa, comincia ad imbrunire e non riesce più a leggere. Piega accuratamente il giornale, le sue mani sono ancora ferme ma la pelle è rattrappita sulle ossa. Guarda la nuvola di polvere dissolversi e posarsi sull’erba del ciglio della strada.
– Povera erba – dice fra se, ma non è all’erba che pensa, rivede ancora una volta, ma in modo distaccato, come se non lo riguardassero, quelle lunghe e buie gallerie delle centrali, quelle montagne di roccia frantumate dalla dinamite, i corpi straziati dei compagni che sono rimasti là e tutta quella polvere addosso, polvere, polvere e soltanto polvere, quella polvere silicea che sembrava bruciare solo gli occhi. E mentre grandi tralicci portavano la corrente in città, Pino passava da un ospedale all’altro, da un ufficio all’altro, da un medico all’altro. Ma poi la città aveva pagato il suo debito e Pino ora riceveva la sua brava pensione di invalido.
E’ difficile per un uomo di sessant’anni, come per tutte le età abituarsi all’idea. Ma Pino è abituato, è abituato a tutto fin da prima di nascere; il sangue dei suoi avi è abituato alla rassegnazione e alla misera. E’ solo questione di tempo, un anno, forse due, è importante non sapere esattamente quando; un nodo gli va su e giù per la gola, ma è involontario. Pino è contento ugualmente, si accorge di non aver acceso la pipa e l’accende, guarda il fiume disseccato, una lunga pietraia, ma lui sa che l’acqua corre nella galleria che ha scavato. Guarda laggiù, dietro la curva della valle. La c’è il paese, in paese suo figlio vive in una casa nuova, è sposato ed ha un bel maschietto. Anche Nina, la sua cara Nina, sua moglie … dopo… andrà in paese col figlio. Suo figlio ha studiato e non deve andare nelle gallerie della centrale a mangiare la polvere.

Renato Soltoggio

LO SCOIATTOLO

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 11/03/1972)

Eppure questo non è un bosco normale. Si possono distinguere, è vero, betulle, larici, abeti e altre innumerevoli piante, ma subito i contorni si sfocano. Appare una grande macchia gialla e rossa che si perde in un’infinita gradazioni di colori di una tonalità calda e sensuale. Ogni sfumatura si armonizza e brilla col sole radente in questo pomeriggio d’autunno. Non si nota nessun presagio del freddo invernale e della neve che presto ricoprirà la montagna. Anzi, dalla terra umida e calda sale un profumo di molle e lussuriosa decadenza. Almeno questa è la mia impressione. Non che io sia un sentimentale, ma ho percorso tanti chilometri di guida senza vedere altro che un fiume di macchine strisciare dentro un allineamento esasperante di paracarri. Mi sono fermato per sgranchirmi le gambe e rilassarmi un poco. Non credevo però che un bosco, in autunno, potesse essere così pieno di vita, di colori e di uno strano incomprensibile fascino.
No, questo non è un bosco normale.

Il mio primo pensiero è il confronto con la città dove le foglie cadono con un senso di tristezza e di vuoto e il vento umido di nebbia mescola foglie e cartacce. Nel bosco che si spoglia, invece, si intravedono i rami delle betulle, non nudi, ma snelli, bianchi ed eleganti, una trina d’abito da sposa che appare all’improvviso in una vivace festa nuziale. Sparsi qua e là si ergono gli abete di un verde vivo e pulito. Ma non è questa magnificenza di colori che mi attrae. Ma che? Scherziamo? Un uomo non si perde ad ammirare quattro piante. E’ il silenzio? Questo silenzio delicato che penetra lentamente nel corpo? Un momento! Sento della musica e delle voci, delle voci belle e misteriose, che non ho mai udito e che pure mi sembra di aver sempre conosciuto. O desiderato? Fantasia? Immaginazione? Pensieri? Nulla di tutto ciò. Queste voci esistono. Solo, il nostro udito non è abbastanza sensibile per coglierle. E’ difficile saper ascoltare.
Certo questo non è un bosco normale.
Eppure sarebbe stato bello fermarsi. Per sempre.
Ma cosa dico? Devo ritornare sulla strada, al paese, alla città, dalla città ad un’altra e poi ad un’altra ancora. In auto, in tram, in metrò, in aereo, correre, correre non con le proprie membra ma spinti, trascinati, sollevati. Veloci, sempre più veloci, senza una fine. Cartelli, frecce, indicazioni e un lungo interminabile nastro d’asfalto. Qui si svolge la mia vita. Debbo parlare, scrivere, telefonare. Non  ho tempo per ascoltare.

Però è strano, ho visto tanti cartelli come strada interrotta, strada dissestata, strada senza uscita, divieto di transito, senso obbligato, mai un cartello che dica: “Qui finisce la strada”. La strada continua sempre, come se non esistesse una meta, un punto di arrivo, come se non fosse una strada. L’acqua che non esiste sull’asfalto rovente battuto dal sole, tutto diventa un miraggio. Avanti, sempre avanti, Fin dove?
Devo andare.
Apro la portiera, mi volto a guardare, ma ho promesso a me stesso: solo un attimo.
Col suo musetto curioso, uno scoiattolo mi guarda senza paura. Mi fissa coi suoi grandi occhi scuri, belli come solo possono essere dipinti in un quadro, dolci e vivi come solo possono essere quelli di una donna. Mi chino, gli tendo una mano e lo chiamo schioccando le labbra, quasi in un bacio. Lo scoiattolo con un rapido scatto scompare nei cespugli. Riappare, mi guarda rizzandosi sulle zampe posteriori, poi, con un saltello scompare di nuovo. Lo so, è una pretesa assurda, eppure vorrei poterlo accarezzare. Da bambino la nonna mi diceva “se gli metti il sale sulla coda si lascia prendere”. Scruto ansioso fra i rami, inutilmente. Una grande ombra mi copre, l’ombra di un castagno coi suoi rami grossi, duri e contorti, muscolosi come le membra di un vecchio irato Dio della guerra.

Passano le ore, o forse sono giorni, o anni. Che importa? Un uomo si allontana dalla strada. Non corre più da una città all’altra. Di tanto in tanto lo scoiattolo riappare, mi guarda curioso, si inoltra nel bosco e compare. Ed io lo seguo. – Fermati, lasciati mettere il sale sulla coda – gli dico, ma forse ha ragione, io gli offro una gabbia d’oro ma non posso dargli che una squallida prigione, fuori dal bosco incantato, in una città normale. Senza una carota o quattro noci da rosicchiare. – Vieni ritorna sulla strada – mi grida un amico – non perdere tempo, corri, prosegui, supera tutti ad uno ad uno. Sei già molto avanti. Non gli rispondo. Getta con stizza il mozzicone di sigaretta poi mi guarda in silenzio, alza le spalle e se ne va. Da una macchina luccicante d’oro, col televisore incorporato nel cruscotto e il telefono in una nicchia, un uomo elegantemente vestito, mi invita a salire.Non attende molto, un attimo e l’occasione è già persa. Un signore dal portamento eretto, i lineamenti marcati, lo sguardo altero e sicuro, eppure evanescente e impalpabile come un’ombra, mi fa un cenno. E’ attorniato da servi e gente osannante. Tutto il seguito si rivolge a me pronto ad accogliermi. Rido e scuoto il capo.  Il mio scoiattolo gioca e mi butta una noce. -Cosa fai? Sei impazzito, cosa hai trovato? -mi chiedono tutti ad uno ad uno e sul loro volto appare una mal celata ombra di apprensione, di timore che manchi loro qualcosa. Si allontano e corrono, corrono sulla strada, da una città all’altra a cercare quello che io devo aver trovato per potermi fermare.

Ma avrò dunque trovato qualcosa in questo bosco incantato? O forse anche lo scoiattolo è un miraggio come la strada? Lontano, nella città si accendono le luci. Un treno fischia. Sulle comode poltrone di un bar alcuni amici guardano il televisore.

Renato Soltoggio

QUANDO VIENE L’INVERNO

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 14/07/1971)

Battista sta spalando la neve davanti alla porta della sua casa. La pala, dalla lama quadrata, si sposta con movimenti precisi e forti. Un solco più scuro si va delineando.
Appese ad una grondaia rugginosa alcune stalattiti di ghiaccio brillano come diamanti ai primi raggi di sole del mattino. La fontana, al centro dello spiazzo, delimitato dalle pareti grigie delle vecchie case, è irriconoscibile. Si intravede appena sotto un cumulo di neve e di ghiaccio, ma dalle sue bocche nere l’acqua continua a gorgogliare. Sull’altro lato della corte anche il “sciur Pietro” sta liberando la sua porzione di terreno. I due uomini lavorano in silenzio e, aprendo la strada, si avvicinano lentamente ma non si guardano e non si salutano. Hanno litigato la settimana scorsa. Battista vorrebbe riappacificarsi, non c’è motivo di guardarsi in cagnesco per il fatto che ci sarà o non ci sarà la guerra. Nessuno chiederà il loro parere.
Non posso però essere io a rompere il silenzio – pensa Battista – sembrerebbe che mendichi un invito nella sua stalla. Guarda di sott’occhi l’amico, ma l’altro, che pure sbirciava, china il capo e riprende a lavorare di lena.
Il “sciur Pietro”, come tutti lo chiamano, ha la stalla più grande della contrada con ben tre lucerne appese alle pareti, due mucche, un vitello, tre pecore e il maiale. Al sabato sera, in questi freddi inverni, buona parte della gente delle case vicine (in tutto sei famiglie) si ritrova in quella stalla a scambiare quattro chiacchiere e a ritardare un poco il freddo delle camere dove, normalmente, gela l’acqua nel catino. Si può così spegnere anche il fuoco nella cucina e risparmiare un po’ di legna. Nella stalla ci sono pure un tavolo di legno massiccio con due panche ricavate da mezzi tronchi (qui si seggono gli uomini), gli sgabelli per mungere e alcuni  ceppi che sono usati dalle donne per sedersi. Su un mucchio di strame pulito giocano e si addormentano i bambini.
Battista spala con rabbia e rivede la stalla calda e accogliente del sabato scorso.
Lui, Pietro, Nino e Bortolo hanno appena finito la partita a briscola e stanno parlando di cose importanti. Battista e Pietro tengono banco; sono i meglio informati e per di più sono due amici che non si trovano mai d’accordo su qualsiasi argomento.
– Questo è il momento buono… –
– Per stare a guardare e aspettare gli eventi – interrompe subito Pietro.
– Ma bisogna entrare in guerra! –
– Non agitarti Battista che tanto non decidiamo noi –
– Ma bisogna intervenire lo dicono anche tutti i giornali. –
– I giornali, i giornali! Tutta propaganda di chi ha sotto interessi.-
– Ma che interessi, Trento e Trieste vanno liberate. –
– Facile come prendere una mela. Tieni i piedi per terra, caro mio, l’Austria è sempre l’Austria.

I lumi ad olio ondeggiano incerti sulle pareti umide e nere. Quattro marmocchi dormono in un angolo; i due figli del Nino sono attaccati, uno da una parte uno dall’altra, ad un pezzo di fune. Si sono addormentati mentre se ne contendevano il possesso. Nonna Ada si alza, prende un telone del fieno e ricopre tutti e quattro dopo averli sistemati uno ad uno. Il giovane Antonio rigira fra le mani lo zufolo che ha appena finito di costruire, lo prova soffiando piano e guarda Lucia, la figlia sedicenne di Bortolo. Solo la ragazza ode il fischio appena accennato, interrompe un attimo il ricamo e sorride. Il giovane si agita sul suo sgabello, cava di tasca il coltello, come per dare gli ultimi ritocchi allo zufolo già perfetto in ogni sua parte. – Non ci si vede – dice a mezza voce e si avvicina, a più riprese, trascinandosi dietro il ceppo, con movimenti goffi, al lume sotto il quale Lucia sta ricamando. I due giovani si guardano di tanto in tanto, arrossendo un poco e girando altrove lo sguardo quando gli occhi si incontrano. La mamma di Lucia lavora a maglia, sta facendo un paio di mutandoni di lana per il marito. Sembra che la sua attenzione non si sia mossa un istante dal lavoro, le sue mani si muovono precise e con ritmo costante. Il suo volto ha l’espressione buona e comprensiva di tutte le mamme. Un pensiero la preoccupa.  – Devo trovare i soldi per comperare un po’ di tela, siamo in gennaio e per la primavera Lucia deve aver ricamato le lenzuola e le federe del suo corredo. Potrei vendere un paio di forme di casera, ma poi dobbiamo mangiare la polenta senza il formaggio. Forse è meglio che il mio Bortolo tagli qualche pianta da portare in segheria.
In una pausa di silenzio una mucca scuote la catena cui è attaccata e il maiale grugnisce dal suo recinto poi la voce forte di Battista risuona nella penombra della stalla. – Tu non sei un patriota! Ti preoccupi solo delle bestie e dei terreni, hai paura ad andare al fronte.
– Chi? Io paura? – Pietro freme si alza in piedi.  – Come ti permetti di parlare così! Ricordati che la mia è una famiglia di patrioti. Il mio povero avo, che Dio l’abbia in gloria, era col Conte Torelli a piazzare il tricolore sul Duomo di Milano nel ’48 e il mio signor padre, pace anche all’anima sua, ha partecipato alla presa di Roma, ed io…
– E tu te ne freghi e stai tranquillo perché mangi carne tutte le domeniche. –
I due uomini sono in piedi, uno di fronte all’altro, come due galli che si studiano durante un combattimento. Tutti gli sguardi sono fissi su di loro ma nessuno osa intervenire.
– Parli così perchè sei invidioso della mia posizione, ma ti ho mai negato un favore? –
– Io non invidio proprio niente e dei tuoi favori ne faccio a meno. –
– E che ci fai qui in casa mia? –
– Ah! Questo mi rinfacci! Scuso senza la tua sporca stalla. Vieni Rosa, prendi il bambino e andiamo.

E’ passata una settimana. Sette giorni di discussioni nelle rispettive famiglie e di furtivi abboccamenti tra la Rosa e la moglie del “sciur Pietro” nel tentativo di riappacificare i loro mariti. Ora i due uomini si trovano vicini, pochi colpi di badile e le lame si incroceranno, al termine del lavoro, per togliere l’ultima neve dal piazzale ripulito. Pietro si ferma, si guarda attorno, poi dice con noncuranza:
– E’ nevicato molto questa notte.
– Però non fa freddo  –
Risponde Battista col tono di chi parla a se stesso. Passano alcuni interminabili secondi.
– Sai, volevo dirti…  scusami e se ti fa piacere vieni ancora nella  mia stalla. –
– Grazie, ma sono io che devo scusarmi, ho alzato la voce… –
– Ma no, che dici!
I due uomini hanno smesso il lavoro e sono appoggiati al manico del badile.
– Credo che hai ragione, la guerra la decidono i capoccioni, e noi ci lasciamo la pelle. –
– Ma giustamente dicevi, gli ideali…-
– Prima la minestra, poi gli ideali –
– E la Patria?
– Ah no, basta non litighiamo da capo! –
– Giusto andiamo a bere. –
– Nella mia cantina –
–  No nella mia –
– In tutte e due –
Si danno una reciproca manata sulla spalla a suggellare la pace fatta e piantano i badili nella neve lasciando il lavoro incompiuto.
La ciotola di legno si riempie più volte di un vino rosso, limpido e generoso, prima in una poi nell’altra cantina. Poi ancora nella prima. Una potente sbornia. Fu forse l’ultima.
I nomi di Pietro e Battista sono uno accanto all’altro sulla lapide del Monumento ai Caduti nella guerra 1915-18

Renato Soltoggio

LA PAZIENZA PAZZA

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 05/12/1970)

Il corpo inerte della formica morta urtò contro il rametto che sbarrava la strada. Senza lasciare la presa delle robuste mandibole la formica che trasportava la compagna girò su se stessa portando le zampe posteriori su quel tronco adagiato, si sollevò con il suo carico sopra l’ostacolo, passò dall’altra parte e proseguì la sua marcia. Un’altra formica giunse in senso contrario, si fermò, vi un incomprensibile muoversi di antenne e di zampe, poi entrambe afferrarono saldamente il corpo inanimato e proseguirono più speditamente aggirando e scavalcando gli ostacoli. Scomparvero nella fitta boscaglia della gialla e bassa erba.. All’altezza del ramoscello ora c’era un’altra formica che trasportava una voluminosa massa grigia. Dietro si snodava un lungo corteo brulicante, instancabile, che si muoveva rapido e a scatti. Andrea prese una pagliuzza  e ne fece scorrere la punta sul terreno urtando e travolgendo la colonna che si sciolse in ordine sparso abbandonando il carico. Vi fu un momento di trambusto, un correre agitato, delle consultazioni affrettate, poi lentamente ritornò la calma, ogni formica riprese il suo granello, la colonna si ricompose.

Andrea rigirò la pagliuzza fra le mani, si fece solletico sul mento, la raccolse nel pugno cercando di sentire l’impercettibile rumore mentre la frantumava fra le dita e la gettò lontano. Seduto per terra tirò a se le ginocchia e si guardò attorno. Oltre una siepe di nocciolo, a monte sulla destra vide Cristina che ritornava con un mazzo di fiori. Andrea era seduto sull’erba proprio all’inizio del bosco, sotto di lui c’era la gradinata delle vigne che scendeva di balza in balza giù fino al paese coi suoi tetti neri, d’ardesia, attaccati uno all’altro, dominati da un severo campanile e dalla torre. Attorno al paese era un mosaico di campi e prati delimitati da file di salici, da rogge, da muretti e da passi carrai. Gli appezzamenti erano piccoli, a volte come i tetti delle case, si che paese e campagna formavano un mosaico uniforme. Solo il paese era più scuro. Le vigne cominciavano al piede della montagna e formavano un’enorme tribuna di cinquanta o sessanta gradini, ogni gradino una vigna. Grigi muri di pietrame a secco sostenevano il terreno della vigna sovrastante e correvano orizzontali sul fianco della montagna, a volte più alti che non la larghezza della vigna. Perpendicolari ai muri i filari delle viti erano verdi e diritti, sostenuti da pali di castagno. Tre soli colori si fissavano nell’occhio: il marrone della terra, soffice, zappata e ripulita da ogni filo d’erba, il verde delle viti nel suo rigoglioso vivere estivo e il grigio delle “muracche”. Le muracche salivano dalla valle lungo la montagna come squamose spine dorsali, parallele ai filari, enormi ammassi di pietre, a volte stretti, a volte larghi fino a dieci metri e su di esse correva spesso il sentiero o la scalinata di accesso alle vigne. A monte e a valle, fin dove si poteva spingere lo sguardo tutta la falda della montagna era uguale, un lunga tribuna che seguiva il capriccioso piegarsi del monte, un enorme anfiteatro popolato da migliaia e migliaia di viti, da migliaia e migliaia di pali di castagno.
Cristina si sedette sull’erba accanto ad Andrea.
– Cosa fai?- disse.
– Nulla guardavo le vigne –
– Sono belle si, è uno spettacolo, tutta la montagna terrazzata, tutte le viti così in ordine, allineate, ma dimmi Andrea, tutti quei sassi ammucchiati da dove vengono?
– Dallo scasso, ripulendo la terra, togliendoli ad uno ad uno e ammucchiandoli.
– Ma è una pazzia! Sono più sassi che terra.
Si, è una pazzia, una bella pazzia, come tutta questa valle; chi ci è nato, chi ha nel sangue, trasmesso da generazione in generazione, l’odore di questa terra, il sudore di chi l’ha dissodata, la miseria di chi ci ha vissuto…
– Tu sei sempre sentimentale e tragico nelle tue espressioni.
– A te sembra, perché guardi solo in superficie, non sai capire questa valle.
– E piantala, certo che non capisco, né te né questa gente né questa valle .. insomma mi avete stufata, tu e la tua valle e le vigne di qua e i boschi di là, e il torrente di sopra e il ghiacciaio di sotto…
– No, il torrente di sotto e il ghiacciaio di sopra – corresse Andrea scherzoso.
Cristina tacque offesa, ed immobili nel silenzio più profondo, non tanto delle labbra ma del cuore, ognuno se ne andò per i suoi pensieri. Cristina chissà dove. Andrea ritornò alle vigne, a quella pazzia che era stata fatta giorno per giorno, per anni per decenni, per secoli. Intanto le formiche continuavano instancabilmente il loro andirivieni trasportando faticosamente il sostentamento tra fili d’erba e macigni.

“Gli uomini sulla pendice del monte, prima in basso e poi sempre più su, aggrediscono pazientemente il terreno incolto e la boscaglia, scavano la terra pietrosa col piccone, coi sassi costruiscono i muri. Non ci sono ancora i trattori, le teleferiche, le macchine e la terra odora ancora di selvaggio. Gli uomini spaccano e sollevano i sassi più grossi, le donne gettano sulla muracca i sassi più piccoli, i bambini i ciottoli. I muri formano i primi terrazzi, la muracca cresce, s’allarga, s’innalza e il terreno diventa fertile. Quando il sole batte più forte, a mezzogiorno, uomini, donne e bambini si fermano, si siedono su una pietra e mangiano una fetta di polenta fredda e un pezzo di formaggio. Gli uomini hanno diritto al formaggio, le donne mangiano solo polenta e i bambini, con le mani sporche di terra, mangiano polenta e terra. Agli uomini viene il gozzo, le donne invecchiano presto e i bambini muoiono per i vermi. La sera li trova ancora sulla vigna e a casa gli uomini si buttano sfiniti sui loro giacigli. Ma la domenica, dopo la messa, bevono fin quasi ad ubriacarsi e dimenticano tutte le fatiche. La pazzia continua, per anni e per secoli, passo per passo, scalino per scalino portano su con la gerla, il letame, le viti e la polenta; e piantano le viti.”

Oltre lo spiazzo d’erba spuntò il corteo funebre delle due formiche con il loro carico. Cominciarono a scalare alcuni ciottoli attaccandosi con le sottili e robuste zampe ad invisibili appigli. Erano quasi in cima quando le zampette annasparono inutilmente sulla pietra liscia e le due formiche rotolarono con il feretro  ai piedi del sasso. Senza un attimo di esitazione ripresero la scalata.

” D’estate l’aria si fa afosa, si sente quello strano odore che rende nervosi, gli animali fuggono, gli uomini del paese guardano ansiosi le loro vigne. Le nuvole rovesciano tutta la loro ira e l’acqua sulle viti, la terra diventa nera, si fa pesante, si gonfia, preme contro i muri, un sasso si muove, il muro scricchiola, si deforma e alla fine rovina in un fiume di fango. Ma quando il sole ritorna gli uomini vanno alla vigna, rifanno il muro e con le gerla riportano su la terra franata a valle. Sistemano la terra e la zappano, il sudore scende dalla fronte e dalle guance, cade in grosse gocce e rende la terra più scura. Le radici succhiano avidamente il sudore e i frutti sono rigogliosi. E in autunno è una grande festa, il lavoro è meno duro, cantano le donne, schiamazzano i bambini. La vendemmia è la ricchezza è la vita.”
Lo strano corteo funebre delle formiche superò i ciottoli, percorse un altro breve tratto e si insinuò nella fessura di una roccia.

Cristina era rimasta seduta accanto ad Andrea, in silenzio. Il sole si incamminava lentamente verso il fondo della vallata. Andrea fissò in volto Cristina. – Si sta bene insieme – pensò e Cristina piegò il capo lentamente annuendo e insieme dissero: – Andiamo, si fa tardi- Si incamminarono giù per il sentiero, lungo la muracca. Il cielo si andava tingendo lentamente di rosso preparando uno di quei mirabili tramonti che strappano agli uccelli cinguettii di ammirazione. Un merlo frusciò sui sassi, rasentò i filari e scomparve nel bosco sopra le vigne. Il sole sembrò indeciso, impigliato sulla cresta seghettata del monte, per un attimo mandò una luce più viva e più rossa, poi si tuffò dietro la vetta.

Renato Soltoggio

Racconti Brevi
IL DEBITO DELLO STATO
(Racconto pubblicato sul Corriere Della Valtellina il 20/10/1976)

Il soldato Maiolani guardò il cortile della caserma. Che orrore! Sembrava bombardato. Era stato tutto distrutto e reso inservibili le armi. Qua e là qualcosa fumava ancora fra i rottami.
Gli ultimi ritardatari si muovevano furtivi e frettolosi come topi. Qualcuno già in abiti borghesi. Il Capitano aveva dato l’ordine: tutti a casa. Un sole pallido e freddo nasceva sulla periferia di Monza. Non un rumore, non uno sparo, ma si sapeva: i tedeschi sarebbero arrivati da un momento all’altro. Era l’alba del 12 settembre. Il Capitano era immobile e pensieroso vicino ad un magazzino. Il soldato Maiolani gli si avvicinò facendosi coraggio per il fatto di essere suo convalligiano.
– Scusi signor Capitano… – disse con voce tremante, ma si fermò, non osava proseguire.
– Che c’è? –
– Sig. Capitano io… –
– Parla, cosa vuoi? –
– Io… – disse mettendosi sull’attenti -io dovrei avere milleottocento lire.. mi vengono . –
– Non c’è nulla Maiolani, non c’è più nulla – Rispose il capitano
La sua voce pur così calda e umana, come sempre, aveva qualcosa di impersonale, come la voce di una radio o di un telefono. ” Non c’è più nulla” Era un suono distaccato e il soldato comprese, senza rendersene conto, ma in modo confuso come un sentimento di tristezza inesprimibile, che quel “nulla” era qualcosa di più che non la cassa, gli spiccioli della Compagnia. Del resto che non ci fossero più soldi lo sapeva già.
– Se permette, signor Capitano, se posso, io prenderei un po’ di biancheria, sa, per far pari con lo Stato, qualche lenzuolo, un po’ di tela, mi dica Lei quanto…  io non voglio approfittare. Il Capitano rise bonariamente.
– Ma si, prendi tanto qui tutto va in malora, vai a peso e sbrigati che i tedeschi stanno arrivando.
– Signorsì –

Il soldato scomparve dietro una porta. La caserma era ormai vuota. Il Capitano guardava i suoi soldati che se  ne andavano, i più senza un saluto, col solo desiderio di dimenticare tutto ciò che sapesse di guerra. Dopo tre giorni di dubbi, di incertezze, di paure erano bastate due parole “ragazzi andate a casa” e tutto era finito. Una decisione che non gli competeva e che pure aveva dovuto prendere. Ed ora?  Che fare? Fuggire o rimanere?Il soldato Maiolani ricomparve trascinando per terra due grossi zaini- Capitano, credo di essere pari con le 1800 lire – disse guardandolo con un po’ di timore-
Maiolani, che fai! –
Il soldato scattò sull’attenti davanti al suo superiore dal volto sfatto, coi capelli spettinati, la giacca slacciata e che pure incuteva ancora soggezione. Il soldato, già piccolo di statura, tremava e sembrava voler rimpicciolire ancora. I due uomini formavano un quadro irreale e anacronistico sul piazzale deserto della caserma semidistrutta. Quello scattare sull’attenti, quell’atto di ubbidienza così inutile e non richiesto riassumeva in se stesso tutta la tragica assurdità di una guerra, tutta la crudeltà degli eventi, tutta la nullità e l’impotenza dell’uomo dinnanzi allo strapotere degli uomini.
– Ho preso troppo? – Chiese con timore.
– Ma che troppo – disse il Capitano spazientito. -Ma come ti porti due zaini così pesanti, devi scappare, andare a casa sulle tue montagne, arrivano i tedeschi, hai capito? –
– Capitano, se permette, se non mi fa rapporto… –
Indugiava, guardava il Capitano aspettando un cenno di consenso, il crepitio di una mitragliatrice non molto lontana lo scosse e lo fece parlare tutto d’un fiato.
– Capitano… io prenderei anche il mulo. –
Il Capitano annui meccanicamente e sorrise guardando lontano la nebbia della pianura che cominciava ad alzarsi. Più vicino sul muro risaltava una enorme scritta: Credere Ubbidire Combattere. Due lacrime gli velavano gli occhi, pensieri confusi si accavallavano. Anche lui doveva decidere: fuggire o rimanere.
Il soldato Maiolani era ancora davanti a lui sull’attenti.
– Signor Capitano – disse – forse ho superato le 1800 lire che mi deve lo Stato.
– Ma insomma cosa vuoi ancora? –
Per il mulo mi serve anche una coperta. –
Prima in rumori confusi poi sempre più distinto si sentiva avanzare verso la caserma lo sferragliare dei mezzi cingolati dei tedeschi. Il soldato Maiolani usciva guardingo, incamminandosi verso la campagna, col suo mulo, gli zaini di biancheria e la coperta.
Aveva abbondantemente pareggiato il suo credito con lo Stato.

Renato Soltoggio

IL RACCONTO: La morte di Beroli

Il vecchio sentendosi chiamare con lo strano nome che
Il figlio non aveva mai usato credette di capire….

(Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 13/03/1976)

Solo, nella sua vecchia casa, se casa si poteva chiamare quel rudere, Beroli da qualche giorno andava meditando e scrutando la trave principale del tetto. Era così curva che minacciava di far crollare tutto da un momento all’altro.  Fuori della baita nascosta in una piega della valle, un vecchio cane tutto pelle e ossa, stava accovacciato a fare un’inutile guardia al sentiero che conduceva al paese, distante quasi un’ora di strada. Da anni, oltre al vecchio Beroli, su quel sentiero quasi cancellato dal crescere degli arbusti, non era passata anima viva. Il vecchio Beroli ravvivò la brace nel camino. – Non può certo resistere al peso della prossima neve – disse fra sé quasi a conforto della decisione che aveva preso e guardò ancora una volta la trave. Sarebbe andato in paese a chiedere aiuto al figlio. Da solo non poteva certo eseguire la riparazione.
Beroli non era il suo vero nome, ma la gente, quando ancora qualcuno lo conosceva, lo aveva sempre chiamato così. Nessuno si era però mai chiesto il perché, da cosa derivasse quel soprannome così strano. O forse qualcuno lo sapeva, l’aveva scoperto anagrammandolo ma se n’era ben guardato dal dirlo. C’era qualcosa di proibito in quel nome, il pronunciarlo dava una sensazione di pericolo. Ora, nessuno conosceva più il vecchio (aveva passato i settant’anni) e il nome era stato completamente dimenticato.
Beroli s’incamminò in un tardo pomeriggio, sapeva che avrebbe potuto trovare il figlio solo la sera per via del lavoro. Aveva una certa riluttanza e timore ad andare in paese che non gli era mai andato a genio. Aveva sempre rifiutato gli inviti del figlio a trasferirsi da lui e abbandonare la vecchia casa. Ora però non poteva fare diversamente.
Le prime case del paese, lunghe, con le finestre allineate e tutte uguali lo disorientarono, gli sembravano diverse da come le aveva viste l’ultima volta; in ogni caso erano fuori del suo modo di guardare e di vedere il mondo. Nella sua mentalità semplice e intuitiva nel valutare le cose, associò subito quella lunga teoria di abitazioni all’interminabile fila di poste per il bestiame che aveva visto una volta in una stalla moderna.
Fosse stato per quest’impressione sgradevole o la fatica per la lunga camminata, Beroli non lo sapeva, ma si sentiva oppresso, quasi gli mancava il fiato. Camminava lentamente, pensando, cercando di acchiappare i ricordi di gioventù che gli sfuggivano inesorabilmente confondendosi nell’uniformità ossessiva delle strade e delle case. Non riconobbe nessuno della gente che incontrò e nessuno gli rivolse il sia pur minimo saluto, eppure si sentiva osservato, spiato, come se fosse colpevole di qualche cosa. Aveva quasi paura ma si fece coraggio (non aveva mai fatto nulla di male tranne qualche pedata al cane) entrò nel cortile del caseggiato e affrontò il lungo corridoio a piano terra con tutte le porte a intervalli regolari come in un alveare. Bussò alla porta del figlio.
– Oh! Pà ti sei deciso finalmente a venire da noi –
– Ciao Giovanni – biascicò lentamente il vecchio – fammi sedere, qui si soffoca, sembra di essere in prigione –
– Siedi, ma dimmi come stai? Ti faccio un caffè –
– E tua moglie? –
– Luisa fa il turno di notte al nido d’infanzia –
– Anche il piccolo è là? –
– No Marco è grande ormai, ha già dieci anni, dorme alla scuola dei giovani allievi –
Beroli scosse la testa con rassegnazione – Io questo vostro modo di vivere proprio non lo capisco, uno qua, uno là, la scuola, lo Stato, ai miei tempi la famiglia…
– Lascia perdere Pà –
– Giovanni, mi devi aiutare, la casa in campagna, sai, il tetto sta cadendo, bisogna tagliare una pianta nel nostro bosco e rinforzare il colmo del tetto, se mi dai una mano uno di questi giorni, tu sei carpentiere no? –
Giovanni impallidì un poco, sapeva bene quanto il vecchio fosse irremovibile nelle sue decisioni. Cercò di guadagnare tempo.
– Pà, perché non vieni e vivere da noi, te lo ho detto tante volte –
– Io sto bene a casa mia, con una sola pianta e mezza giornata di lavoro ritorna come nuova-
– Qui ci sono tutte le comodità, la luce l’acqua corrente..
– E la sala riunioni con il capo casa – strillò il vecchio.
– Insomma pà, cosa pretendi e poi non si può tagliare il bosco non è più ..-
-Come? Hai venduto il bosco? – disse il vecchio Beroli con tono fra l’incredulo e il costernato mentre sentiva una coltellata al cuore e il sangue rallentare nelle vene – Hai venduto il bosco, il mio bosco, come hai fatto se io non ho firmato?
– No, no – Si affrettò a dire Giovanni mentre camminava per la cucina come un animale braccato – Tu vivi fuori, tu non sai niente, la collettività, la società, la legge, insomma non si possono tagliare le piante senza…-
– Ma il bosco è mio –
– Si pà il bosco è tuo, no, cioè il bosco è dello Stato, del Popolo –
Il vecchio Beroli ansimava- – La casa, la mia casa sta cadendo e tu non mi vuoi aiutare –
Beroli non capiva, si sforzava di capire ma non riusciva, però sentiva che il rifiuto del figlio aveva qualche cosa a che fare con le finestre tutte uguali e allineate, con le porte a intervalli regolari, con la gente che lo spiava senza parlare. La sua casa cadeva, la casa dove lui era nato, dove era nato suo padre e suo nonno. Suo figlio non lo aiutava. Non aveva mai chiesto aiuto a nessuno, non aveva mai preteso nulla, aveva sempre mangiato di quello che le sue mani e la terra avevano prodotto. Perché ora suo figlio gli negava quell’unico aiuto che chiedeva nella sua vita e non per sé ma per la casa della famiglia? Agitato fra lo sconforto e la speranza cercava una via d’uscita.
– Giovanni – disse con voce rauca quasi in un bisbiglio – taglieremo il noce se non si può tagliare nel bosco, quello a fianco alla casa, salveremo la nostra casa, al diavolo la collet.. come si dice? Ma sì quell’imbroglio che hai detto prima –
– Beroli Pà Beroli – disse Giovanni mentre gli occhi gli diventavano lucidi – Non posso, lavoro al Comprensorio, non posso lasciare il lavoro, non posso fare lavori fuori, vanno denunciate, capisci, non posso –
Così dicendo strinse il vecchio padre alle spalle in un moto istintivo di affetto e di rassegnazione. Il vecchio, sentendosi chiamare con lo strano nome che il figlio non aveva mai usato capì, o credette di capire e sentì il coltello affondare più profondamente nel cuore. Si abbandonò sulla sedia.
– Pà tu non stai bene –
– Non è nulla, non è nulla Giovanni, solo un po’ di stanchezza –
Il volto sbiancava, tentò di alzarsi per ritornare alla sua casa ma le forze gli mancarono.
– Chiamo l’ospedale, è nuovo, moderno, là ti cureranno, ti daranno dei buoni cibi, sai, abbiamo fatto sacrifici ma adesso abbiamo un’assistenza perfetta, i nostri ospedali sono i migliori del mondo –
– No – disse con tutta l’energia disponibile – piuttosto chiama il dottor Corti, è mio amico, ha curato anche la povera mamma e anche te, ti ricordi? E’ bravo –
– Sst – Fece Giovanni, nascondendo un improvviso terrore – Ma sei matto, è un reazionario e poi non in paese è…. È al lavoro. Forse è morto –
Fuori la notte scendeva rapidamente, era diventato scuro. Una leggera nebbia e il silenzio avvolgevano le case. Giovanni accese la lampadina che sotto il disco di latta illuminò fiaccamente il locale. L’ombra del vecchio accasciato sulla sedia formava una massa informe sul pavimento di graniglia.
Un gemito.
La lama era ormai giunta in fondo. Il vecchio Beroli mosse lentamente una mano a chiamare vicino il figlio.
– Giovanni – mormorò con un filo di voce – Giovanni promettimi –
– Sì Pà, sì –
-Nel cimitero, vicino a tua madre – Le parole erano confuse e si spegnevano lentamente – Ricordi tua madre? – La sua mano si strinse per l’ultima volta su quella del figlio. – Voglio.. nel cimitero –
– Sì Pà, sì –
Attutita dal muro divisorio la radio del capo casa nella stanza accanto gracchiava.
Per unanime decisione del popolo, in ottemperanza alle norme igienico sanitarie, a partire dalla data odierna i vecchi cimiteri liberal-borghesi sono chiusi. I defunti saranno avviati al gratuito crematorio sociale. Eventuali discorsi funebri e riti religiosi ammessi saranno autorizzati nell’attigua sala comune dietro presentazione, alla Commissione del Popolo, di regolare domanda.
Ed ora musica.

Renato Soltoggio

IL MARCIAPIEDE

Racconto pubblicato sul Corriere della Valtellina il 17/09/1971

Si chiama Francesco Esposito, ben rasato, coi capelli che vanno ritirandosi sulla fronte, ma sicuramente ancor giovane. Diciamo sulla quarantina. O non è lui? Forse è Michele Stagno. Non ha nessun’importanza, ciò che è certo è che si tratta di un tranquillo signore in vacanza nella ridente cittadina di villeggiatura.
Cammina sul marciapiede del viale con tutta l’aria di chi si sia liberato per qualche giorno di tutte le seccature del lavoro. Senza cravatta, con la camicia slacciata al collo, si gode l’ombra della doppia fila di tigli ai lati del marciapiede.
Una passeggiata, in questo paese bello e sconosciuto, senza i noiosi visi dei colleghi e degli amici, senza neppure la moglie e figli rimasti in un vicino albergo, insomma libero da tutto. In questo punto, sul viale, mancano ben due piante; la solita incuria dell’Amministrazione Comunale. Una feroce occhiata del sole di luglio colpisce le gocce di sudore che si vanno formando, strada facendo, sulla pinguedine del collo di Esposito. Un’impercettibile smorfia si dipinge per un attimo sul suo viso tranquillo. Però, non per il sole, ha calpestato ancora una volta la linea di giunzione dei quadrati della pavimentazione in cemento. E non è neppure superstizione, ma una pura curiosità o un gioco, se così si può chiamare. Camminando su questo marciapiede, pavimentato da una fila interminabile di quadrati in cemento, congiunti da una linea di catrame, si deve pur trovare una camminata che permetta di non calpestare le righe. Esposito prova ad accorciare il passo; uno, due, tre quadrati, no, al terzo incappa sulla riga. Lo riallunga ma il tentativo fallisce. Un piccolo aggiustamento, ecco ora ci siamo, scavalca la giunzione, un passo, un altro passo, un terzo ed Esposito passa regolarmente oltre la linea. Controlla al quadrato successivo, Perfetto, ha trovato l’andatura giusta.
Sulla strada le macchine passano silenziose, senza suonare e senza stridore di freni, quasi rispettose di questo solenne andare.
Sul marciapiede deserto vi è solo un bambino, saltella incurante del caldo e degli intervalli regolari dei quadrati che si susseguono inesorabili.
Esposito prova una certa soddisfazione per l’equilibrio raggiunto, questo oltrepassare la linea nera esattamente ogni tre passi gli dà l’impressione di mantenere un certo ordine, come il soffiarsi il naso ogni mattino, appena seduto alla scrivania del suo ufficio o il riscuotere lo stipendio il 27 del mese. Peccato che su questo marciapiede ogni dodici quadrati non ve ne sia uno doppio! Ha dovuto compiere ancora alcune piccole correzioni ma ora la sua andatura è perfetta, precisa come il battere dei secondi del grande orologio della sua anticamera. Non deve più guardare per terra, può alzare la fronte e andare avanti sicuro. Si guarda attorno e si accorge che il ragazzino è scomparso, il marciapiede è vuoto, lontano s’intravede la fine. Un foro bianco nella verde galleria degli alberi si apre su una piazza accecante di luce.
Solo allora si accorge di questa strana solitudine che lo circonda in pieno giorno su un viale normalmente affollato, lo coglie una leggera apprensione che tenta inutilmente di scacciare. Come avesse un brutto presentimento vorrebbe fermarsi, ma non può, è come se le gambe si muovessero da sole, o meglio, come se il marciapiede gli scivolasse sotto i piedi. Ogni tre passi una linea. Ora intravede la fine e prova quasi un’inconscia paura nel constatare che la piazza non è pavimentata a lastroni. E’ grigia ed uniforme, ha la sensazione che giunto là non avrà dove appoggiare i piedi. Vorrebbe contare quanti passi gli rimangono, quanti quadrati deve ancora percorrere ma per quanto si sforzi le linee nere gli si confondono alla vista. – Immaginiamo che quello sia per me un traguardo importante – dice fra se fissando l’ultima linea e sorridendo del nuovo gioco, ma in realtà sente un’inspiegabile paura. Nessuno è con lui, nessuno davanti a lui, guarda indietro con la coda dell’occhio, nessuno lo segue. La moglie è in albergo, tranquilla coi figli. L’aria si è fatta grave, pesante, quasi più scura. Le macchine sulla strada sono ferme davanti al semaforo, persino le larghe foglie dei tigli sono immobili.
Come un’attesa.
Esposito compie l’ultimo passo, oltrepassa l’ultima linea. In questo suo gioco, per lui, l’ultimo passo è importante, ma nessuno ci bada. E come potrebbe? Volti anonimi, dietro amorfi vetri, dentro scatole d’acciaio, tengono gli occhi fissi e vuoti, come i fari delle loro auto sul rosso del semaforo.

Renato Soltoggio

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