RACCONTI DEGLI ANNI ’60

Un prete tuttofare

Il motorino, 50 di cilindrata, quasi non riusciva a vincere la pendenza di quella strada sterrata che portava a Cologna. Era una frazione in cima al conoide che digrada verso il paese. Le case erano una attaccata all’altra, così vecchie e cadenti da sembrare abbandonate. In effetti, alcune lo erano e i tetti crollati all’interno delle mura in sasso creavano un paesaggio spettrale.

Non pensavo però alla strada, ma a quella strana telefonata del prete che mi aveva semplicemente detto:

“Venga a trovarmi, le devo parlare d’affari”

Alto, imponente nella sua tonaca nera, sovrastava il gruppetto di quattro o cinque contadini coi quali parlava sul sagrato della chiesa. Non mi lasciò il tempo di aprire bocca e con il tono di chi non ammette repliche mi disse: “Lei è un giovane geometra e io ho bisogno di un giovane che si faccia pagare poco”

“Veramente sono diplomato da due anni, iscritto all’albo dei geometri e ora ho aperto un studio” replicai quasi offeso.

“Bene, bene, ma veniamo al dunque, c’è una legge per la quale si può ottenere un contributo di due milioni di lire per costruire una casa d’abitazione per contadini. Ho parlato con il responsabile provinciale dell’Ufficio Agricoltura e Foreste; per Cologna si possono ottenere sei forse otto contributi. Naturalmente occorre presentare il progetto con regolare licenza edilizia rilasciata dal Comune. Io le mando i contadini che le spiegheranno dove e come vogliono la casa; lei fa i progetti e riceverà ottanta mila lire per ogni pratica”.

Fece una pausa poi aggiunse:

“Sarà pagato quando i contadini riscuoteranno il contributo”

“Più le spese” replicai.

Don Siro fu irremovibile.

“Le spese sono una sciocchezza”

Ottantamila lire mi sembravano veramente poche.  Feci il conto, corrispondevano circa alla paga mensile di un impiegato, però, sei progetti tutti assieme… Accettai.

Nei giorni seguenti vennero in ufficio, un localino con accesso indipendente nella casa di mio padre, i sei contadini che il prete aveva scelto fra i suoi parrocchiani. C’era poco da discutere. Per ottenere il contributo la casa doveva avere un piano terra per il deposito degli attrezzi agricoli, un primo piano ad uso abitazione con massimo cinque locali e, facoltativa, la cantina.

L’interessato doveva solo dirmi su quale terreno intendeva costruire la casa se voleva balconi, finestre grandi o piccole e pochi altri particolari. Importante era solo se desiderava un edificio molto economico o se, per via del contrabbando di sigarette e dadi di pollo, che molti facevano dalla vicina Svizzera, poteva permettersi qualche finitura più costosa.

Nei giorni seguenti cominciai a fare i disegni cercando di usare tutta la mia fantasia per diversificare le case una dall’altra ma, date le condizioni di partenza, c’era poco da inventare.

Solo allora mi resi conto di non conoscere neppure qual era la procedura per ottenere la Licenza edilizia.

Mi recai dal Capo dell’Ufficio tecnico del Comune. L’avevo conosciuto per aver fatto per qualche mese l’assistente tecnico ai lavori appaltati dal Comune. Era un tipo simpatico il geometra Amilcare, capo di se stesso, diceva lui, perché era stato fino a qualche anno prima, l’unico dipendente nell’Ufficio Tecnico. Ora aveva un sottoposto, assunto a tempo determinato.

 Il 29 aprile 1945

In seguito diventammo quasi amici, dico quasi, perché in quel tempo un giovane era molto rispettoso verso chi aveva vent’anni di più. A volte, quando non era troppo impegnato, si compiaceva di raccontarmi alcuni interessanti avvenimenti della guerra partigiana nella zona. Nei giorni della liberazione lui era stato nominato comandante della Piazza.

A grandi linee erano cose che in paese tutti sapevano, ma sentite direttamente da un protagonista, con tanti particolari inediti, assumevano una forza dirompente, sembrava quasi di vederle come in un film, anzi di viverle.

Mi rimase particolarmente impressa la vicenda del giovane fascista catturato il 29 aprile 1945.

I fatti andarono così.

Il 28 aprile nella caserma che avrebbe dovuto essere il centro del Ridotto Valtellina, situata alla fine del largo viale alberato che collega la Basilica di Madonna al paese, erano ancora asserragliati quasi 300 militari tra fascisti e francesi. I tedeschi, invece, acquartierati nel palazzo scolastico si erano arresi il giorno prima e avevano ottenuto di incamminarsi verso il confine elvetico, distante un paio di chilometri, conservando le armi.

Gli occupanti la caserma si arresero nel pomeriggio, uscirono uno per volta, gettando le armi personali in mezzo alla piazza.

A quanto pare un giovane delle Brigate Nere, forse preso dal panico, non uscì e si nascose nelle cantine.

Fu scovato il mattino seguente e, non essendosi arreso, qualcuno voleva fucilarlo senza processo. Occorreva però il consenso del comandante della Piazza. Il racconto prosegue così:

“Mi portarono il malcapitato, aveva un volto da ragazzino, gli occhi grandi, dilatati dalla paura. Intorno ai quattro partigiani che lo tenevano con una corda legata ai polsi, come fosse un animale da macello, si era radunato, un gruppetto di persone che spintonava e urlava: dai ammezzatelo quel porco di un fascista”

A fianco alla Pretura, con annesse le carceri, oltre la porta delle antiche mura, correva il fiume. L’acqua era tumultuosa e limacciosa. Il fiume era in piena per via del disgelo primaverile. Si sentivano i sassi rotolare con un brontolio sordo.

“Caliamolo dal ponte a testa in giù e facciamogli bere un po’ d’acqua”.

Alcuni dei presenti rimasero sorpresi non capendo se volevo annegarlo o no, ma ai più scalmanati si accesero gli occhi di una gioia maligna nel pregustare l’atroce spettacolo. Lo legarono per i piedi, lo calarono oltre il parapetto di ferro fino che la testa fu sommersa dall’acqua che sfiorava le travi del ponte. Il malcapitato urlava mentre lo calavano e, con la testa sott’acqua agitava le braccia nell’inutile tentativo di sollevarsi. Dopo una trentina di secondi che a me parvero un’eternità (chissà a lui!) ordinai di tirarlo su. Urlava, si agitava disperatamente, sputava fango ma le sue urla erano coperte dalle grida della gente che accorreva da ogni dove.

“Giù, giù anneghiamolo”

Chi teneva la corda mi guardò ed io acconsentii a calarlo di nuovo nell’acqua. Una decina di secondi e feci segno con la mano verso l’alto. Non gridava più, gemeva, mi parve dicesse “mamma, mamma, aiuto” La gente, sporgendosi dal parapetto del ponte continuava ad urlare improperi ed insulti e gridava “giù, giù”. Lo rimisero con la testa sotto le onde nere del fiume e quando fu risollevato non si muoveva più, la violenza dell’acqua gli aveva strappato anche la giacca e le braccia erano penzoloni. Prima le donne, poi gli uomini cominciarono a defilarsi in silenzio. Tutti desideravano il morto ma nessuno voleva esserne responsabile. Sdraiato a terra, sul ponte, il poveretto cominciò a sputare acqua e a tossire.

“Portatelo in cella” ordinai.

Una decina d’anni dopo un signore distinto, ma che a guardarlo sembrava avere meno di trent’anni, con uno sguardo nel contempo fiero e bonario, venne a trovarmi. Si presentò “Sono (…..), vengo apposta dalla Toscana per ringraziarla. Lei mi ha salvato la vita”

 Uffici e burocrazia

Ora sto divagando. Ritorniamo ai fatti.  Mi ero recato all’Ufficio Tecnico del Comune per chiedere informazioni sulla procedura per ottenere la licenza edilizia per i miei progetti.

Quando si è giovani sembra tutto facile ma non mi aspettavo che fosse così semplice.

Il geometra Amilcare fu gentilissimo.  Mi diede una bozza dattiloscritta della domanda spiegandomi che avrei dovuta copiarla su carta bollata da cento lire. Dovevo allegare una carta bollata in bianco per la risposta, due copie dei disegni composti da una planimetria mappale, una pianta per ogni piano, almeno una sezione e un prospetto. Mi consigliò di usare un unico foglio piegato a fisarmonica perché su ogni foglio doveva essere apposta una marca da bollo e quindi, tenendo tutti i disegni su un unico elaborato, avrei risparmiato un po’ di soldi

A conti fatti per ottenere la licenza edilizia per una casetta occorrevano circa mille lire. Quanto un chilo di lesso.  La licenza edilizia era solitamente rilasciata entro quindici giorni.

L’operazione “case ai contadini” procedeva rapidamente. Don Siro provvide direttamente a presentare all’Ufficio Provinciale le domande di contributo e i contadini, che erano anche quasi tutti muratori, iniziarono, aiutandosi l’un l’altro a costruire i fabbricati agricoli.

Il prete voleva essere informato quasi giornalmente di tutte le difficoltà che gli improvvisati costruttori incontravano sia per l’acquisto dei materiali sia per i problemi o i dubbi che si possono avere nel mettersi di punto in bianco a costruire una casa. E lui provvedeva. La gente diceva che Dio vede don Siro provvede. Un giorno distribuì anche zucchero ai più poveri. Si racconta che, uscendo dalla Svizzera alla dogana di Piattamala, con la sua vecchia automobile, un finanziere gli chiese:

“Reverendo cosa dichiara?”

E lui serio:

“Cinquanta chili di zucchero”

“Se non la smette di prendere in giro noi poveri finanzieri, qui al freddo, un giorno o l’altro la trattengo per perquisizioni”.

E così il reverendo passò coi suoi cinquanta chili di zucchero da regalare ai parrocchiani.

Una sera don Siro mi telefonò e mi diede appuntamento per le otto del mattino del giorno seguente, dopo la messa feriale. Lo trovai in sagrestia che armeggiava coi suoi paramenti. Senza preamboli e senza interrompere il suo lavoro mi disse:

“Dobbiamo costruire una strada per servire i maggenghi, fino a Cabrella”

Devo spiegare che Cologna si trova circa 500 metri sul livello del mare ai piedi di una montagna ricca di boschi e di maggenghi, il più alto a quota 1500 è appunto Cabrella.

Questi pascoli, con antiche cascine che fungevano contemporaneamente da stalla e da abitazione erano quasi tutti abbandonati perché si potevano raggiungere solo percorrendo mulattiere quasi impraticabili.

I contadini non avevano più animali da soma, avevano comperato piccoli trattori. Quindi ci voleva una strada di collegamento.

“Ma sono mille metri di dislivello, almeno dieci chilometri di strada, un costo enorme, con nessuna legge si possono avere contributi così alti, e poi si può ottenere al massimo l’ottanta per cento, chi ci mette la differenza?”

Don Siro finì di piegare il camice e lo ripose in un cassetto con la casula verde poi con calma spiegò.

“Faremo domanda di contributo a lotti, un chilometro per volta, uno ogni anno. Costituiremo un Consorzio con atto notarile. Presidente sarà il Zela (2) Consiglieri saranno quattro o cinque muratori che formeranno la “squadra muri”. Pagato il nolo di un escavatore e i materiali per i muri in calcestruzzo il resto del contributo sarà diviso fra i componenti la squadra. Risulterà una buona paga oraria, perché sono persone forti che rendono sul lavoro e soprattutto, essendo consorziati, non dovranno pagare contributi previdenziali e nemmeno tasse. Credo che non con l’ottanta per cento ma anche solo con il sessanta si può realizzare l’opera. Tu, per progetto e assistenza avrai il due per cento del contributo”

Il ragionamento non faceva una grinza, a parte il mio misero compenso per il quale, avevo già imparato, non si poteva discutere.

Costituito il Consorzio di miglioramento fondiario, alla prima riunione fui nominato segretario e progettista e, stesa sul tavolo una grande planimetria della montagna, don Siro, il Presidente e i Consiglieri esaminarono quali fossero i maggenghi che dovevano essere serviti dalla nuova strada e quindi fu determinato un tracciato di massima che mi sarebbe servito per il progetto. Per il primo lotto, si poteva ottenere un contributo di dieci milioni sufficienti per raggiungere il primo alpeggio con un percorso di circa 1200 metri.

Per prima cosa comperai in cartoleria un Libro dei Verbali. Altro non era che trenta fogli di protocollo rilegati. Apposi quindi trenta marche da bollo da dieci lire ciascuna, una ogni quattro pagine, e mi recai all’Ufficio del Registro per la timbratura denominata “annullamento” delle marche da bollo.

L’Ufficio del Registro si trovava al primo piano nello stesso stabile del Municipio ma aveva un ingresso separato. Per accedervi occorreva salire una vecchia scala buia e polverosa.

L’ufficio sembrava rimasto intatto dal 1800. Le pareti sembravano sporche, probabilmente non erano più state imbiancate dal tempo in cui l’edificio era riscaldato con le stufe a legna. Sembrava di sentire ancora l’odore della fuliggine. Un vecchio divisorio di legno, con due sportelli, separava lo spazio riservato al pubblico dall’ufficio dove due impiegati stavano seduti davanti alle loro minuscole scrivanie. Uno, tutto concentrato su alcune carte, non si mosse né alzo lo sguardo. L’altro, la signorina Nata che al mio entrare aveva sentito lo scricchiolio delle vecchie tavole di legno del pavimento, si alzò, venne allo sportello e mi chiese cosa desideravo.

La signorina Nata, tutta vestita di nero, era sicuramente più vicina agli ottant’anni che ai settanta. Era andata in pensione da tempo, ma non avendo parenti e non sapendo come passare la giornata, aveva ottenuto dal Capo di poter venire in ufficio gratuitamente a continuare il lavoro che aveva svolto per tanti anni.

Ritornò al suo tavolo con il Libro dei Verbali. Posizionò sulla destra il tampone inchiostrato, prese il timbro tondo, metallico, controllò la data, lo girò fra le dita in modo che la timbratura risultasse perfettamente orientata e cominciò. Pim, un colpo sul tampone, pam, un colpo sulla marca da bollo. Girò il foglio e pim, pam timbrò ancora con una precisione incredibile. La timbratura risultava essere per un quarto in basso a destra della marca da bollo e per tre quarti sul foglio bianco.La data era perfettamente leggibile. Pim, pam per trenta volte poi, con molta professionalità, e il volto che mostrava il suo orgoglio per il lavoro compiuto, mi riconsegnò il Libro dei Verbali.

La signorina Nata rimase in quell’ufficio per altri due o tre anni. Un giorno arrivò un nuovo Capoufficio che fece imbiancare il locale, togliere il vecchio divisorio che fu sostituito con un bancone  ricoperto da un luccicante laminato di formica, bello, pulito, color legno.  Infine proibì alla vecchia impiegata di entrare in ufficio.

La signorina Nata morì dopo circa un mese.

Il più grosso problema da risolvere, per costruire la nuova via di collegamento agli alpeggi, era quello di ottenere il consenso dei proprietari dei terreni che sarebbero stati occupati dalla strada. Naturalmente senza pagare alcun indennizzo.

Mi recai quindi all’ufficio del catasto terreni. Essendo il paese capoluogo di mandamento vi era un ufficio staccato della sede provinciale. Questo era già un grosso vantaggio.

L’impiegato, accertate le mie generalità, mi diede il permesso, per la consultazione, di accedere direttamente agli scaffali sui quali erano allineati i grossi registri.

I libroni, con copertina in cartone marrone e dorso in tela grigia misuravano circa quaranta centimetri di larghezza e cinquanta di altezza. Pesavano tre o quattro chili l’uno. Erano composti da fogli, a righe e colonne prestampate, di una carta grossa e forte per evitare strappi durante la consultazione. La carta, molto ruvida, tratteneva la polvere e le dita divennero presto nere e irritate da un fastidioso prurito. Per un osservatore inesperto questi registri altro non contenevano che una serie di numeri in ordine progressivo perché ogni terreno aveva un suo numero di identificazione, a fianco vi era un altro numero che indicava la “partita” . Il registro delle partite, altra serie di libroni, era l’elenco dei proprietari dei terreni.

Il tutto con una bella grafia in inchiostro nero e rosso.

L’impostazione, studiata nel 1939 era un modello di razionalità ed efficienza. Peccato che per ragioni di sicurezza, nella consultazione del pubblico, i registri fossero rilegati non composti da schede sciolte che avrebbero potuto essere compilate con la macchine da scrivere anziché a mano.

Rilevati i nomi dei proprietari cominciai a girare per le case, all’imbrunire, per trovare gli interessati dopo il lavoro, alle sette di sera, ma non più tardi perché i contadini cenano presto e poi vanno subito a dormire.

Fu tutto relativamente facile, tranne un caso.

Filippo non voleva dare il consenso.

“Mi tagliate il bosco in due  e poi che vantaggi ho, io non possiedo maggenghi”

Intanto versò due bicchieri di vino. Si sentì un forte odore di aceto. Invano tentavo di spiegargli che con la strada sarebbe stato più facile trasportare il legname, che nel bosco vi erano abeti maturi per il taglio e portandoli in segheria avrebbe avuto un buon guadagno. Non voleva sentir ragioni e continuava a ripetere, in dialetto, che il bosco, tagliato in due sarebbe stato rovinato, che con la strada potevano rubargli la legna, i funghi e anche il “falec”(3). Ad un certo punto si accorse che non avevo assaggiato il vino.

“El bevi sciur geometro”

Rifiutare sarebbe stata un’offesa imperdonabile, perciò presi il coraggio e il bicchiere a due mani e buttai giù il vino tutto d’un fiato. Non l’avessi mai fatto!

“L’è bun vera”

E così dicendo me ne versò un altro bicchiere.

Alla fine lo convinsi e firmò. Il terreno però era cointestato con il fratello.

“A far firmare suo fratello ci pensa lei?”

“No, no, io con mio fratello non parlo”

“Come sarebbe a dire non parla?”

“Sono trent’anni o forse più che io e mio fratello non ci parliamo”

Rimasi di gesso e mi fu spontaneo chiedere:

“Ma cosa è successo? Per quali motivi non vi rivolgete più la parola?”

“E chi si ricorda! Sono passati più di trent’anni!”

Quando uscii da quella casa era diventato buio. Filippo mi disse che non si era ancora accordato coi vicini per l’acquisto dell’unica lampadina che avrebbe dovuto illuminare il cortile. Tenne quindi la porta di casa spalancata per fare un po’ di luce ma inciampai ugualmente in qualcosa.

“Cribbio! Ma tenete le immondizie davanti alla porta di casa!”

“No, è stato il mio vicino, ma lo ho già avvisato se non fa pulizia uno di questi giorni vado dall’avvocato”

Era trascorso più di un anno da quando i miei otto progetti (due più del previsto) avevano ottenuto le relative licenze edilizie, le casette erano tutte terminate, o quasi. Comunque i contadini avevano già incassato il relativo contributo di due milioni ciascuno. Nessuno però mi aveva ancora dato una lira. Tutti avevano una scusa, tutti promettevano che mi avrebbero pagato la settimana successiva. Le settimane passavano, una dietro l’altra. Una domenica pomeriggio persi la pazienza. Cominciai dal primo committente.

“Permesso, permesso” Senza attendere risposta entrai, perché i contadini non usavano chiudere la porta di casa. Il signor Pietro mi fece entrare in cucina, mi porse una sedia, prese il fiasco del vino e prima che io avessi il tempo di aprire bocca mi disse:

“Domani vado in banca a prendere i soldi e la pago”

In una frazione di secondo feci mille ragionamenti, o forse nessuno, ma compresi che quel domani era un termine vago, dopo un domani ce n’è sempre un altro. Con una felice intuizione azzardai.

“Ma quale banca! Lo sanno tutti che qui a Cologna la gente tiene i soldi sotto il materasso. Mi dovete dare almeno un acconto di cinquanta mila lire”

Rimase immobile qualche secondo, sorpreso dalla mia affermazione, poi si alzò dalla sedia, entrò in un locale attiguo, chiuse accuratamente la porta alle sue spalle e ricomparve dopo pochi minuti  con otto biglietti da diecimila lire.

“Tanto vale che le pago tutto, almeno mi tolgo il pensiero”

Avevo trovato il bandolo della matassa. Dalle quattro del pomeriggio alle otto e mezza di sera avevo raccolto quattrocentonovantamila lire. Esattamente il costo di una Fiat 500

 Politica e democrazia

Una sera al bar, Amilcare ormai diventato un buon amico, mi presentò Cleto. Il signor Cleto era stato, nel paese, il primo segretario della Democrazia Cristiana alla fine della guerra. Avevo sentito parlare di vendette, di rapporti tesi fra partigiani cattolici e partigiani comunisti, di denunce e di processi ma tutti i racconti erano vaghi. Si capiva che vi erano cose che non potevano essere dette o perlomeno non erano rievocate volentieri. Anche Cleto, nonostante le mie domande non sembrava volerne parlare.

Poi, dopo un paio di bicchieri di vino, disse:

“Ti faccio vedere una cosa interessante”

Aprì il portafoglio, tolse una cartolina postale gialla e me la mostrò.

Era regolarmente affrancata con un francobollo da due lire. Il timbro postale ben leggibile mostrava la data del 6/10/45. Era scritta a macchina tutta in stampatello maiuscolo. Sul lato del bollo l’indirizzo:

AL SIGNOR PRESIDENTE DEL PARTITO  “DEMOCRAZIA CRISTIANA” DI TIRANO

Sul retro il timbro di una stella a cinque punte e la scritta:

MALEDETTA GENIA DI PRETI PEDERASTI E LADRI E DI LIBERALI IPOCRITI E REAZIONARI ALLA PRIMA SEDUTA AVETE GIA’ DATO LA MISURA ESATTA DELLA VOSTRA TURPITUDINE.

MONARCHIA E CAPITALISMO VI STANNO A CUORE RAZZA DI CANAGLIE MA NOI VIGILIAMO E STATE CERTI CHE VINCEREMO A COSTO DI UCCIDERVI TUTTI AD UNO AD UNO.

LA VOLTA PROSSIMA APPLAUDIRETE ANCHE VOI DELINQUENTI ALL’ “EVVIVA LA REPUBBLICA”

I “M I T R A” DEI VERI PARTIGIANI DEL NORD FANNO BUONA GUARDIA SULLE SORTI DELLA PATRIA.

Poi Cleto cominciò a raccontare di quando, nelle prime campagne elettorali del dopoguerra, i galoppini dei vari partiti staccavo dai muri i manifesti elettorali degli avversari, di come a volte si venne alle mani tanto che lui era solito accompagnare gli “attacchini” con una rivoltella in tasca. Già, i tempi erano cambiati, ora si discuteva senza acredine e cattiveria tra democristiani e comunisti. Forse c’era più discussione e lotta all’interno di uno stesso partito che fra persone di partiti diversi. Tra i vari argomenti  di cui parlammo nell’angolo appartato del bar vi fu anche il mio ingresso in politica qualche anno prima.

La Democrazia Cristiana aveva organizzato in ogni provincia il Movimento Giovanile e la Segreteria Provinciale aveva nominato d’ufficio dei delegati di sezione per i Comuni più grossi. Per la nostra Sezione era stato scelto l’amico Giancarlo. Nel paese erano iscritti al partito otto giovani, me compreso. Alla prima riunione mi accordai con altri quattro, presentammo una mozione di sfiducia nei confronti del delegato che fu rimosso con cinque voti contro tre e con subitanee elezioni fui nominato Delegato Giovanile di Sezione.

“Già, tutto regolare, democratici, ma cattivelli!”

Commentò il buon Cleto.

 L’impresa edile

All’inizio del 1963 il signor Mario mi commissionò il progetto di una casetta di due piani oltre al piano terra. Il signor Mario era un ex commerciante, benestante, proprietario di una casa in una bella zona residenziale, appena dietro il Grand Hotel. Il terreno circostante la casa esistente era abbastanza grande da poterne costruire un’altra. Non gli serviva ma avrebbe potuto affittarla

Mi impegnai, feci un  bel progetto con tanto di disegno prospettico e con allegato il computo metrico estimativo che prevedeva una spesa di quattordici milioni e mezzo, per avere la casa finita, come si usava dire “chiavi in mano”. Ottenuta la licenza edilizia il signor Mario mi invitò a casa sua, mi offrì da bere e disse:

“Sei sicuro che quella cifra basta per costruire la casa? Ho qualche dubbio perché ben due impresari mi hanno detto di avere già troppo lavoro”

Fece una pausa.

“Non  è che invece i prezzi sono troppo bassi?”

“No, sono i prezzi medi della Camera di Commercio”

“Perché allora non costituisci un’impresa e la costruisci tu la mia casa?”

Rimasi sorpreso, non mi aspettavo una proposta del genere e per di più così esplicita.

“Non ho il denaro per comperare il minimo di attrezzature necessarie”

“Facciamo così, ti anticipo due milioni, se non bastano te ne do tre. Mio figlio, che lavora in banca, ti apre un Conto Corrente e mano a mano che i lavori proseguono ti verso acconti di due milioni”

“Be! Devo trovare tre o quattro muratori, informarmi sulle procedure, studiare il problema, insomma devo pensarci”

“Bene, ci sentiamo tra una settimana”

Uscito dalla casa del signor Mario percorsi meditabondo un centinaio di metri. Quando arrivai sul grande viale alberato mi sedetti su una panchina in pietra con la scritta “Pro Loco”proprio davanti al Grand Hotel.

Mi fermavo spesso ad ammirarlo, era una magnifica costruzione in stile liberty con un sontuoso ingresso al centro del palazzo. Il piano rialzato, con le sale da pranzo aveva delle grandi vetrate. Al primo e al secondo piano nove finestre equidistanti erano sormontate da splendide cornici classiche a forma triangolare. Sul tetto spiccavano altrettanti bellissimi abbaini. Nel grande parco svettavano alcuni secolari abeti rossi. In quest’albergo soggiornò anche la Regina Margherita.

Non solo l’edificio ma tutto il viale incantava lo sguardo. Era lungo oltre un chilometro, in fondo, esattamente in asse si stagliava il campanile della Basilica. Ai lati della carreggiata di sette metri due marciapiedi, anch’essi larghi sette metri ciascuno, avevano una doppia fila di alberi che creavano una fresca galleria d’ombra. Per un paese così piccolo come il mio quel viale così grande e bello era un esempio eccezionale di urbanistica.  Mi è stato raccontato che, ai primi del ‘900 quando fu costruito,  i paesani si erano resi conto, solo ad opere iniziate, di quanto terreno agricolo era stato espropriato per costruire la strada. In quegli anni in valle si poteva vedere un’automobile ogni due o tre giorni, una strada larga in totale ventuno metri era incomprensibile e fuori da ogni logica in un mondo rurale. Una domenica mattina i contadini, armati di forconi, andarono in Municipio e costrinsero il Sindaco e tutta l’Amministrazione a dimettersi.  L’opera però fu terminata ad onore di quel Sindaco e a vanto di tutto il paese.

Guardavo il viale e pensavo a queste cose perché la proposta di diventare impresario edile mi aveva stordito e insieme allettato. Non mi sentivo all’altezza e volevo scacciarne  l’idea.

L’Ufficio di Collocamento era un localino di tre metri per tre, al piano terra del Comune. Spoglio, c’era solo un piccolo armadio che sembrava una credenza da cucina, un tavolino e una sedia sulla quale sedeva il signor Clery. Magro da far paura ma con un sorriso affabile mi squadrò con aria interrogativa.

“ Ma come, vieni qua a cercar lavoro non lo trovi da solo?”

“Veramente io avrei bisogno di due muratori e due manovali”

Il signor Clery si mise a ridere.

“Guarda qui”

Mi disse indicando sul tavolo due cassette di legno che fungevano da schedario. Contenevano dei cartoncini rosa, erano le schede dei lavoratori. Una cassetta era piena, le schede dovevano essere almeno trecento, nell’altra, quella dei disoccupati, vi erano non più di dieci cartoncini.

“Non c’è nessun muratore in cerca di lavoro”

Disse senza neppure controllare le schede.

“Ci sono solo alcune donne delle pulizie. Però, se cerchi un muratore, conosco il Dante, non è iscritto all’ufficio di collocamento perché ha molta campagna e sua moglie è maestra, anzi lui di sicuro è in grado di trovare altri muratori”

Come diavolo potesse radunare una squadra di almeno quattro operai, dato che in paese non vi era nessun disoccupato, proprio non riuscivo ad immaginarlo, comunque andai a trovarlo.

Gli spiegai che per costruire quella casa, con quattro persone, ci sarebbe stato lavoro per un anno.

“Semplice” rispose “Io ho degli amici che lavorano presso l’impresa (…) e percepiscono cinquanta lire in nero oltre la paga sindacale. Se lei è disposto a pagare un extra di settanta lire  si possono assumere”

I costi, secondo i miei calcoli sarebbero lievitati del cinque per cento. Era accettabile.

Il giorno dopo, sempre nella casa di Dante incontrai  due muratori, Ardelio e Biagio e un manovale, Renzo detto Castra. Oltre al compenso extra Biagio mi chiese un’altra condizione. Voleva essere libero di licenziarsi senza preavviso nel caso avesse trovato un’offerta migliore da un altro datore di lavoro, poi aggiunse:

“Naturalmente l’orario di lavoro è di dieci ore giornaliere, sabato compreso”

“Ma come? Per legge l’orario di lavoro è di 45 ore settimanali!”

“Sei proprio un ragazzo” Replicò Biagio “Qui in inverno fa freddo e non si lavora, come campiamo in inverno se non lavoriamo dieci ore al giorno in estate? Tutte le imprese edili lavorano sessanta ore la settimana. Lo sa anche l’ispettorato del lavoro, che tollera e finge di non saperlo”

“E i sindacati non dicono nulla?”

“Cosa vuoi che dicano? Se parlano perdono quei pochi iscritti che hanno”

Ardelio, che aveva la qualifica di operaio comune, chiese invece di essere assunto come operaio specializzato.

“Sono un bravo carpentiere,  l’impresario, presso il quale lavoro ora, mi ha promesso il cambio di qualifica per  fine anno ma se questo vantaggio arriva subito sono disposto a lavorare per lei”

Così i costi lievitavano ancora, ma in cuor mio avevo già deciso. Volevo tentare l’avventura.

Quella notte non riuscivo a prendere sonno. Avevo studiato e letto di un secolo di scioperi, di lotte sindacali, di operai sfruttati, di sudditanza dei lavoratori, ed ora?  Mi rigiravo nel letto e pensavo. Per la prima volta in vita mia  dovevo cercare di capire la differenza fra teoria e pratica. Non vi erano state conquiste sindacali, né nuove leggi che proteggessero i lavoratori, né i datori di lavori erano diventati più generosi, il mondo non era più buono. Eppure ora le condizioni le dettavano gli operai e i datori di lavoro si contendevano la mano d’opera aumentando la paga!  Non era cambiato nulla di importante, gli operai stavano meglio di prima non per emancipazione, non perché il mondo fosse diventato improvvisamente ricco. Era solo variato il rapporto fra domanda e offerta di lavoro.

Il giorno dopo, concluso il contratto di costruzione, mi recai nel capoluogo di provincia all’Ispettorato del Lavoro per far vidimare il libro paga, il libro matricola e il registro degli infortuni. Alla Camera di Commercio compilai il modulo di iscrizione come ditta artigiana.

Seguendo i consigli che mi diede Dante ordinai una piccola betoniera, un argano, 120 metri quadrati di ponteggi per mettere in sicurezza almeno la facciata prospiciente la strada, il legname necessario per la carpenteria e l’armatura delle solette e un po’ di attrezzatura minuta. Mon comperai né cazzuole né metri né martelli. Quegli strumenti erano proprietà personale di ciascun operaio.

Il lunedì successivo con una ditta specializzata in scavi iniziai i lavori.

Era il mese di maggio del 1963. A ventidue anni ero uno dei più giovani impresari edili della provincia.

I lavori procedevano bene,  ad agosto la struttura portante era completata. Dai miei conti l’utile si aggirava attorno al 20%. Unico inconveniente derivava dal fatto che un manovale per tre muratori era troppo poco per cui spesso dovevo supplire io mettendomi al servizio dei muratori miei dipendenti.

Per visionare e acquistare i materiali di finitura e di impiantistica e scegliere le ditte fornitrici più convenienti dovevo recarmi in  diversi paesi. Era pertanto necessario avere un’automobile e prima ancora occorreva conseguire la patente di guida.

Mi recai dall’Ufficiale Sanitario Comunale che rilasciava il certificato di idoneità fisica.

Il dottor Edoardo mi accolse gentilmente.

“Tu sei il figlio del Gino vero? Tuo padre è mio grande amico. Ho saputo che hai costituito un’impresa edile, bravo! Dimmi cosa ne pensi della congiuntura economica?-

“Ma quale congiuntura!”

“Non leggi giornali? Tutti parlano di congiuntura, dicono passeggera, ma qualcuno parla addirittura di crisi.”

“I giornalisti devono pur scrivere qualcosa”

“No no, io credo che la situazione sia più grave di quel che si dice, io sono vecchio, ricordo la crisi del ventinove, non dico che possa ripetersi, la storia è sempre diversa, però quando  la ricchezza nazionale cessa di crescere, dopo la così detta congiuntura, spesso viene la crisi”

“Ma dottore! Il mondo va avanti, siamo in pieno miracolo economico, il progresso è inarrestabile, la tecnologia produce benessere e renderà tutti sempre più ricchi. Fra cinquant’anni tutti avranno la casa in proprietà, l’automobile, il telefono, il frigorifero, la lavastoviglie e chissà quali altre comodità. Gli operai, la sera, si metteranno in camicia bianca e cravatta e andranno a mangiare al ristorante. Lavoreremo solo tre o quattro ore al giorno e il lavoro pesante sarà fatto dai robot. E poi dottore, dopo la televisione chissà cos’altro sarà inventato per rendere la vita più semplice e piacevole!”

Il dottore mi guardò scettico.

“La vita più piacevole può darsi ma che sarà più semplice scordatelo. Vedrai, ne riparleremo fra qualche anno. Il boom è finito. Ricordati che dopo la congiuntura viene spesso la crisi!”

Poi prese un modulo e cominciò a compilarlo.

“Hai bisogno del certificato per la patente vero? Ci vedi bene, si; salute ottima, si; ci senti bene, si; mi devi cinquemila lire”

Mi sembrava una cifra esagerata.

“Come ha detto dottore, cinquemila?”

“Ah! Ma allora non si senti bene”

Fece l’atto di stracciare il certificato.

“No, no, ci sento bene,  ho capito, ecco un cinque”

Per la seconda volta passai una notte agitata. Pensando. E se il dottore avesse ragione? Se veramente il lavoro cominciasse a scarseggiare? O peggio se non vi fosse lavoro per tutti?

Forse la crisi era già cominciata e non lo sapevo, perché  in provincia tutte le notizie arrivano in ritardo, il “nuovo” in provincia è già vecchio in città. Era arrivato in  ritardo il benessere ed ora  non  si erano ancora avvertiti i segni premonitori della crisi.

Forse la crisi era li, dietro l’angolo.

Trovai un’ottima occasione. Una fiat 1100 D, azzurro chiaro, con un mese di vita, perfetta, al prezzo di ottocento mila lire. Nuova sarebbe costata un milione e cento.

Automobili in provincia ve ne erano poche. La mia aveva il numero di targa 21365.

L’automobile in quegli anni era uno Status symbol  e per di più essere possessori di un auto alla mia età era un caso raro. Solo i figli dei ricchi (che erano pochi) guidavano l’auto che  naturalmente era intestata al padre.

Tutti i miei coetanei divennero amici, anzi, anche quelli  con qualche anno di meno, o qualche anno di più. Ogni giorno gli amici crescevano come le mosche, mi chiedevano di portali a fare un giro, e poi, spesso, dovevo anche pagar loro da bere.

 Il collaudo

Anno dopo anno, con qualche periodo di interruzione, un chilometro circa ogni lotto, la strada per servire i maggenghi era arrivata oltre la metà. Erano stati realizzati cinque tronchi sempre con contributi dello Stato ma ora i tempi per le pratiche burocratiche stavano diventando sempre più lunghi, le procedure sempre più complicate e difficoltose. Il finanziamento non avveniva più tramite la Provincia ma occorreva un decreto regionale. Eravamo agli inizi degli anni settanta ed erano state istituite le Regioni a statuto ordinario.

Il grosso faldone contenente, oltre agli elaborati di progetto, anche la Concessione edilizia rilasciata dal Comune e un sacco di altre carte, era a Milano da oltre sei mesi. Ogni tanto arrivava una lettera raccomandata  con una nuova richiesta di documentazione accessoria. Alla quarta lettera che chiedeva di trasmettere una delibera del Consorzio con le ultime nomine del Consiglio direttivo, il Presidente Zela decise che bisognava andare a Milano di persona.

“Non mi sembra il caso” Obiettai

“No, ci andiamo venerdì e poiché siamo prossimi alle feste di Natale portiamo un panettone e una bottiglia di spumante”

“Vogliamo farci prendere per cafoni?”

Fu irremovibile e il giorno dopo partimmo di buon mattino con la mia automobile.

Il palazzo in Via F. Filzi sembrava deserto. Dopo dieci minuti trovammo finalmente un usciere che ci indicò la porta dell’ufficio che cercavamo.

Bussammo con discrezione.

“Avanti!”–

Rimasi sorpreso per un attimo, tre impiegati stavano finendo le ultime fette di un panettone.

“Voi siete?”

“Siamo il Presidente e il Segretario del Consorzio Alpeggi”

“Si! Bene, ricordo perfettamente la pratica per il contributo; avete portato la delibera richiesta? Si, ottimo; ci spiace, se foste arrivati dieci minuti prima potevamo offrirvene una fetta.”

Con la mano indicò l’involucro aperto con le ultime briciole di panettone.

“Se è per questo non ci sono problemi”

Posai sul tavolo lo scatolone che sembrava un normale pacco di documenti ed estrassi la bottiglia

di spumante e il panettone, naturalmente Motta. In un clima di grande cordialità, anzi clima natalizio, quando tutti si vogliono bene, ci fu assicurato che ai primi di gennaio, alla riapertura dell’ufficio, avremmo avuto il decreto di finanziamento.

Salutammo calorosamente e, usciti dagli uffici della Regione cercammo un ristorante economico dove mangiare.

Ancora una volta aveva avuto ragione il vecchio Presidente, classe 1908. Certo, non aveva studiato, ma in fatto di rapporti umani aveva un fiuto eccezionale. Quel panettone era servito più di tanti elaborati e relazioni ben fatte.

Stavamo per salire in macchina, il Presidente si fermò pensieroso.

“Qui a Milano c’è uno zoo?”

“Certo ma mi risulta che non sia un gran che”

“Non ho mai visto uno zoo, andiamoci”

Non si scompose più di tanto alla vista di leoni, tigri, pantere, elefanti.

“Sono proprio come nei film e come me li immaginavo”

Ad un certo punto si fermò esterrefatto e mi chiese:

“Che animale è quell’asino a strisce bianche e nere?”

In autunno la strada era finita e una comunicazione ufficiale ci informò che il giovedì successivo alle ore nove sarebbe arrivato il collaudatore.

Lo aspettammo sul piazzale davanti alla chiesa: il Presidente, due Consiglieri ed io, tutti con un po’ di  preoccupazione perché per i tratti di strada precedentemente costruiti, il contributo era sempre stato incassato senza bisogno di collaudi.

Arrivò su una bella Alfa Romeo, con tanto di autista e, dopo le presentazioni, ci mise subito in allarme dicendo che occorrevano due operai dotati di piccone e badile. I due Consiglieri procurarono gli attrezzi, salirono col Presidente sulla mia macchina. Percorremmo circa cinque chilometri fino all’inizio del tratto di strada da collaudare. Dietro ci seguiva l’auto con autista e collaudatore.

Scesi dalle macchine iniziammo il percorso a piedi. Il collaudatore, con in mano il fascicolo con planimetria e disegni. Ogni tanto si fermava e ci faceva misurare la larghezza della strada, della banchina, l’altezza dei muri di sostegno o scavare nella ghiaia del fondo stradale per misurare lo spessore della ghiaia stessa. Annuiva.

“Che boschi meravigliosi! Che aria buona e profumata!”

Cominciò a rivolgerci domande che nulla avevano a che fare con la strada. Diventò cordiale, allegro.

“Siete fortunati a vivere in posti come questi, in città ormai c’è solo puzza di benzina. Ditemi si trovano anche funghi in questi boschi?”

“Certamente, ottimi porcini”

Disse un consigliere che fino allora non aveva ancora aperto bocca.

Mi sentii più sollevato. Devo dire che inizialmente ero abbastanza preoccupato perché, durante i lavori, per evitare di scavare alcuni spuntoni di roccia, avevamo deviato il percorso di qualche metro senza predisporre le necessarie domande di variante. Un osservatore attento, planimetria alla mano, sarebbe potuto accorgersene. Anzi ero certo che se n’era accorto ma non aveva detto nulla.

Improvvisamente si fermò, assunse un’aria seria e rivolgendosi a me disse:

“Dove sono i picchetti di mezzeria della strada?”

Rimasi attonito non capivo il senso della domanda.

“Ma dottore di quali picchetti parla?”

“Quelli che si mettono per determinare il tracciato e progettare la strada”

“Mi scusi ma quelli sono stati divelti durante lo scavo”

“Appunto, mi è capitato una volta di dover fare un collaudo e di trovare ancora tutti i picchetti!”

“E la strada?”

“Naturalmente non era stata neppure iniziata”

Il collaudo finì con quelle battute.Ci trasferimmo al tavolo di un ottimo ristorante per compilare e firmare i verbali prescritti dalle norme.

Quando uscimmo dopo aver mangiato ottimi pizzocheri e degustato del buon vino Sassella il Presidente fece caricare sulla macchina del collaudatore due cassette di mele, una per lui e una per l’autista.

Credo che in Italia sia stato l’ultimo collaudo finito con due cassette di mele.

Eravamo entrati negli anni settanta e da allora per ottenere un collaudo ci sarebbe voluto ben altro.

 Renato Soltoggio

(1) I fatti descritti in questo racconto non corrispondono necessariamente alla realtà; ogni riferimento a persone è puramente casuale

(2) soprannome di un parrocchiano

(3) foglie secche che erano raccolte per fare da lettiera al bestiame

 

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