SALVATORE FARINA

I PERSONAGGI DELL’ARCHIVIO ARCARI

SALVATORE FARINA (1846-1918)

Esiste veramente un romanzo inedito di Giulio Verne?
Se è così il testo francese e la traduzione italiana di Salvatore Farina sono da ricercare in qualche biblioteca o archivio privato che conservi la documentazione del noto scrittore sardo.
Oppure si tratta di un falso Verne come affermò a suo tempo Filippo Meda, direttore del quotidiano milanese “L’0ssservatore Cattolico”?
Del presunto romanzo di Verne che avrebbe per titolo “Un dramma in Russia” ne parla Salvatore Farina in una lettera inviata al professor  Paolo Arcari.
Il testo è il seguente:

Lugano 12.1.1905
Egregio Prof. Arcari
Lei può giovarmi, e sono certo che lo farà. Io ho pronta la traduzione italiana del romanzo ultimo (ancora inedito in volume – Titolo: Un dramma in Russia) di Giulio Verne, penso, caro, alla stampa cattolica. La proprietà di questo romanzo per la lingua italiana mi appartiene. Lo darei volentieri per Milano e provincia lombarda da essere pubblicato in appendice.
Può ella offrirlo a nome mio al giornale cattolico che pubblica le sue critiche belle? Mi contenterei di 250 lire – occuperà circa 70 [piedi] di pagina.
Manderei subito lo stampato italiano completo.
Ho sempre in mente di venire un giorno o l’altro a trovarla; ma bisognerebbe farlo in occasione di una lettura a Zurigo, o a Winterthur, o a Berna o a Friburgo. Ci penseremo.
Intanto cordiali saluti dal suo
S. Farina
Il professor Arcari  certamente sostenne il Farina che il 3 febbraio 1905 gli scrive: “Chiaro Cavaliere ed amico, le sono gratissimo dell’interesse preso alla mia piccola causa. L’ Avv. Meda mi scrisse infatti, ed io risposi. Spero ci intenderemo…”
Ma il noto romanziere non sapeva, e forse non seppe mai, che il proprio il giorno precedente il direttore del quotidiano milanese aveva scritto ad Arcari una lettera in proposito:
Milano 2.2.1905
Carissimo, non oso scriverlo a S.F. (n.d.r. Salvatore Farina) ma quel romanzo, lo dico a te in confidenza, deve essere un falso Verne a meno che Verne non siasi divertito a fare la caricatura di sé stesso. La traduzione… poi, non credo possa andare sotto il nome di italiano.
Ciao. Ti scrivo dal letto: purtroppo!
F. Meda

La vicenda si chiude in pochi giorni con una sconsolata lettera del Farina.

Lugano 6.2.1905
Caro ed egregio Cav. Arcari
Le pratiche fatte coll’Osservatore hanno dato mal esito e il sig. avv. Meda mi ha ritornato l’originale. Tanto per informarla di tutto, non cessando in me la gratitudine per l’opera sua…”
Nel seguito della lettera lo scrittore non lesina critiche al direttore del giornale.
Questo è solo un fatto curioso, ma molti altri motivi  emergono dalla documentazione sul Farina, ricca e interessante,  perché fra Arcari e lo scrittore assai più anziano di lui, esisteva una grande amicizia.
Non è infatti nel carattere di Arcari lasciarsi sopraffare dalle simpatie verso un amico, per affinità di pensiero o per il piacere suscitato da una particolare opera, è difficile trovare fra gli scritti di Arcari, sempre attento e misurato nei suoi giudizi, una debolezza in tal senso. Ma se in lui qualche simpatia va oltre il giusto riconoscimento e la meritata lode, questa è sicuramente per Salvatore Farina: “Desideriamo conoscere Salvatore Farina nella intimità della sua vita perché lo amiamo…” “… tutto ci interessa in lui, perfino quel vantamento della robustezza fisica…”
L’omaggio che Arcari fa della sua opera sul Metastasio allo scrittore (come risulta dai ringraziamenti del Farina stesso in data 24.11.1902), i due lunghi articoli su  L’Osservatore Cattolico nel maggio del 1903 per recensire l’opera “Nodi e Catene”, la raccolta quasi completa delle opere del Farina (di cui dodici autografate dall’autore) esistente in archivio, le lettere di riconoscenza che lo scrittore sardo invia ad Arcari, sono tutti elementi che lasciano intuire una affinità spirituale, un’amicizia vera che non si trova in egual misura fra Arcari e gli altri numerosissimi amici o corrispondenti o colleghi.

E’ sintomatico l’articolo che Arcari scrive su “Pagine Gentili” del 23.10.1910 per recensire l’opera del Farina “La mia giornata”. Ad un certo punto abbandona la critica seria ed imparziale per dire:
“…Ed era in quei giorni che il Farina stava per conoscere la più terribil pena del lavoratore: la paura di non poter lavorare, lo stancarsi della mente dopo lo sforzo soverchio, l’invisibile, l’incontrollabile malattia del pensiero che ha i suoi reumi come il braccio, ma che non si può curare al pari di esso, l’ironia di nascondere un indebolimento atroce di tutto l’essere e del migliore nell’apparenza della massima salute corporea. Sono, dapprima, i sintomi dell’anemia cerebrale, il brivido e come la bruciatura di due onde calde che sembrano partire dalla spina dorsale per affacciarsi alla regione dell’epigastrio; fu infine il dramma “silenzioso” di una data lugubre, del venerdì 29 febbraio dell’anno bisestile 1884: L’improvvisa perdita della parola che colse il Farina in tipografia, mentre correggeva le bozze.
Aveva coscienza di tutto quanto avveniva intorno a lui, ma non poteva rispondere, non poteva parlare: “Dinanzi a me una stampatrice vomitava pagine di gazzette che si disponevano da sé una sull’altra. Quella macchina, compiendo il suo lavoro con una indifferenza superba, senza mai fallare cominciò a dirmi singolarissime cose sull’uomo e sulle altre macchine; nessuna di esse era guasta, salvo la mia; tutte continuavano il loro lavoro brontolando in vario modo”.
All’artista della parola un morbo crudele nascondeva la sua maggiore, la sua unica ricchezza, lasciandolo in un’afasia mentale che lo rendeva muto purtroppo anche ai lontani, anche al pubblico cui avrebbe voluto discorrere con la penna. “Quello strazio fu grande, e fu così vero e fu così curioso che se mi provavo a leggere a voce alta, pronunciavo benissimo finché l’idea era dall’occhio legata alla parola scritta; abbassato il libro, staccato lo sguardo dallo scritto, rimaneva nel mio cervello l’immagine bensì della parola, ma ogni parola era inesorabilmente perduta”.
E gli occorsero una pena di sei anni, di sei lunghi anni per ricostituire pazientemente, sillaba per sillaba, il suo patrimonio verbale, per ritrovare nella sua interezza il magnifico strumento che ferma le idee in una nuova vita comune, che avvicina le anime e le confonde in una stessa visione.
Troppo semplice sarebbe insinuare che Arcari è inconsapevole presago della medesima sorte che gli sarebbe toccata negli ultimi anni della sua vita. No, Arcari nel dolore e nelle avversità, nella “miseria lieta” serenamente e cristianamente sopportata dal Farina, vede un modo di vivere e di pensare che si traspone nei suoi romanzi e nelle sue memorie letterarie rendendo lo scritto vivo, piacevole, genuino, nuovo, oltre lo stile del tempo.
Arcari mette in evidenza con toni affettuosi il gusto del Farina per “l’economia”, quell’ “economia non avarizia”, che gli permette, di tanto in tanto una festicciola, “lusso da gran signori”, nella semplicità della sua vita.
Per Arcari il Farina sa superare  “l’ultimo nostro romanticismo” e sopravvivere ad esso, rimanendo nella memoria dei giovani più che “i bei nomi” di Iginio Tarchetti, Emilio Praga, Arrigo Boito.
Arcari, dotto e letterato, ammira lo stile narrativo del Farina, proprio perché è povero e semplice.
Nota
L’articolo non fu pubblicato per la chiusura del giornale

Renato Soltoggio

Info su Renato Soltoggio

Renato Soltoggio nato a Tirano il 23maggio 1941
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